Pagine correlate ai periodi dell’arte di Roma: Pittura romana – Pagina precedente: da Giulio Claudi a Marco Aurelio
Periodi dell’arte Roma
Periodo di Commodo
La crisi dell’Impero deriva dal passaggio dalla fase di grandi conquiste a quella della chiusura a difesa dei territori e viene sentita durante il periodo di Commodo (Lucius Aelius Aurelius Commodus 180-192 d.C.). La filosofia di Marco Aurelio chiude definitivamente il periodo della ricerca sistematica e coerente della verità. Questa è l’età in cui l’umanità si affida facilmente al mistero e l’arte oltrepassa la struttura classica in ogni suo campo.
Dal periodo di Augusto a quello di Marco Aurelio, a differenza della Grecia, l’arte romana viene considerata un’avanguardia storica, ispirata a schemi classici ed ellenisti. Dopo le ripetute guerre con i marcomanni, Iazigi, e la pestilenza che colpisce anche l’Imperatore presso i confini, la nuova avanguardia si affranca dai canoni che l’hanno preceduta, ricerca nell’ideologia una configurazione strutturale auto-portante, interpreta un conflitto mortale, in un drastico e rivoluzionario rinnovamento del costume e della cultura.
Qualsiasi innovazione tecnica, nel campo artistico, viene immediatamente assimilata e divulgata nelle manifestazioni pubbliche. La presenza degli schemi ellenici a Roma, ha ormai gli anni contati: il colore accostato a macchia nel campo pittorico ed i nuovi effetti sul marmo (effetto trapano) gli danno il colpo di grazia. Questo potenziale artistico contiene una grande energia che sfocerà presto nell’autonomia.
Periodo di Settimo Severo
A soli tre mesi di governo i pretoriani uccidono Pertinace (Publio Elvio Pertinace, 193-193) al quale succede Settimo Severo (Lucio Settimo Severo 193-211), di origini africane (Leptis Magna, costa della Libia). Severo affianca alle divinità olimpiche culti esotici, tanto da identificarsi con Serapide (o Sarapide un dio egizio): nei suoi ritratti ostenta una capigliatura a riccioli che gli discende in parte sulla fronte (monarca salvatore), caratteristica tipica di questo dio.
L’arco quadrifronte di Leptis Magna, con decorazioni a rilievo (205-209), dà inizio al programma dinastico che abbatterà quello della “continuità per adozione”: in esso, in due sezioni viene raffigurata la processione trionfale tenutasi per i decennali del regno, mentre in altri due fregi viene celebrata l’armonia del padre con i figli Caracalla e Geta, destinati ad avvicendarlo, e l’ostentazione di intensa religiosità della famiglia in uno scenario di sacrificio. Questa opera monumentale ha la sua conformità decorativa negli interventi degli artisti asiani appartenenti alla scuola di Afrodisia (Aphrodisias, città della Caria in Asia Minore):
La superficie è ricca di ornati, realizzati con la stessa tecnica per le raffigurazioni storiche, con l’aiuto del trapano nella traccia di profondi solchi e fori, che intaccano l’organicità figurativa.
Periodo di Caracalla e degli altri Severi
La sorprendente modernità del mondo ellenico ci meraviglia con i suoi svariati esiti che oggi possiamo trovare nelle definizioni di gusto romantico, impressionista ed espressionista. Caracalla (in origine Lucio Settimio Bassiano, poi Marco Aurelio Antonino, 211-217) si identifica nella concretezza dell’istinto terreno, raggiungendo una nuova ed incredibile rappresentazione eroica.
Quanto più le tendenze verso le forme classiche rifiutano i caratteri “fuori norma” dei sovrani, tanto più in questo particolare periodo – dove ogni abitante è compartecipe dell’universale cittadinanza (editto del 212) – viene caricato il protagonista della sua drammatica differenza: un orientamento opposto a quello dell’ambiguità esoterica del padre Settimo Severo. Si arriva all’apicale raffigurazione dell’estremo nella storia che richiama le orribili maschere del teatro.
La nuova universalità viene originata per assurdo proprio dalla parte più profonda dell’intimo, come volontario rifiuto dell’ideale di virtù. Il repentino cambiamento del gusto, l’allontanarsi cioè dalla sensibilità verso l’eleganza e l’estetica tradizionale, corrisponde alla celebrazione della violenza.
La turbolenza psichica, che nelle immagini giovanili dell’Imperatore rimane potenzialmente compressa dal tornaconto (uccide il fratello Geta nel 212), deflagra potentemente nella allucinata realtà del soggetto: i lineamenti diventano duri annullando ogni caratteristica di spiritualità ed eleganza, la muscolatura facciale si contrae, il collo si torce (alcuni studiosi lo attribuiscono ad un richiamo ad Alessandro) ed il movimento assume aspetti che stravolgono il personaggio con efficacia mai vista nelle rappresentazioni di potere.
La brutalità tocca il fondo, e la mano dell’artista si carica di una forza finora a lui ignota che lo allontana dalla cultura classica, facendolo precipitare in una tenebrosa frenesia. Lo spazio che lo circonda si riempie di una vibrante e minacciosa energia diventando una culminante azione contro il nemico del potere, sia che essa provenga dall’esterno o dall’interno di esso. Partendo dal periodo di Caracalla, la voglia di grandezza si alterna, con lo stesso vigore, all’irrazionalità, come veicolo del nuovo modo di sentire la politica, dove le cose concrete contano più delle parole ed i sentimenti provenienti dal profondo dell’animo umano, più della brama di idealizzazione. Vengono così introdotti nella pittura e nella scultura le espressività tratte dal mondo reale.
Nel periodo tra Caracalla e quello degli ultimi Severi- Elagabalo (Marco Aurelio Antonino, 218-222) ed Alessandro (Marco Aurelio Severo Alessandro, 222-235)- le strutture pavimentali a mosaico si estendono nelle regioni nord africane, e sono realizzate dalle maestranze dei piccoli centri abitati.
Come nella pittura, prevale la policromia ed aumenta la rilevanza della vita contemporanea: prevalgono scenari con giochi di anfiteatro, di circo e di cacce in ambienti naturali. L’orientamento verso queste tematiche deriva dal fatto, che la principale componente dell’economia nord africana, proviene dalla cattura di belve destinate agli anfiteatri delle città dell’Impero romano. Diventa consueto e motivo dominante lo scontro dell’uomo con le forze della natura.
Nel campo scultoreo del tipo funerario sono investiti nella riproduzione tutti gli aspetti fisionomici e gli oggetti che caratterizzano la persona o la sua funzione. Il protagonista con la sua morte va incontro ad ogni desiderio della vita, in una completa libertà, superiore a quella nell’attività terrena.
Le tombe, le stele, le sculture – anche quelle più modeste – ci evidenziano la varietà della popolazione, ignorata dalla storia e valorizzata dalle iscrizioni: i volti di persone felici, gli atteggiamenti ed i giochi dei fanciulli, sposi allegri e spensierati, vedove, anziani, soldati, uomini comuni, bevitori e letterati, musicisti, poeti, persone sfortunate e altro ancora. Nelle tombe viene associato il ritratto a raffigurazioni simboliche e di ispirazione mitologica, che estende sensibilmente il campo dalla spiritualità all’impegno collettivo e, affronta l’annoso problema dell’esistenza umana nell’esatto momento in cui essa viene portata a conclusione con la morte.
Periodo di Gordiano
Nel periodo di Gordiano (Marco Antonio Gordiano Pio, 238-244) i sarcofagi, nelle officine delle città, acquisiscono alta qualità e singolarità. Passando dalla ricerca dei volumi nel periodo classico, alla massa del periodo di Commodo, si arriva ad una scultura di vuoti e di erosioni.
La spontaneità del movimento nello spazio si è sviluppata dopo il rapido scarto di Caracalla. Il presentimento dell’avvento di tecniche inedite e eversive si avvera nello strappo con la cultura accademica e tradizionale. L’espressionismo progredisce e diventa visionario. I particolari inanimati, soprattutto quelli relativi al panneggio, diventano incisivi, sia per la sproporzionata grandezza che la loro carica di significato. L’intaglio è opprimente nei particolari con un linguaggio stilizzato che conferisce a tutto l’insieme un sapore metafisico. Lo stesso De Chirico verrà poi ispirato dalle criniere di quei cavalli addomesticati dai Dioscuri, ritrovati su un sarcofago nella via Appia. A quattro anni dalla sua ascesa, Filippo l’Arabo (Marco Giulio Filippo 244-249) commemora nel 248, il primo millennio dalla fondazione della città eterna.