Claude Monet: citazioni (tratte dai “Classici dell’Arte” Rizzoli Editore)
Pagine correlate all’artista: Biografia e vita artistica – Le opere prima serie – Le opere seconda serie – Le opere terza serie – Il periodo artistico: l’Impressionismo francese – Le lettere – Bibliografia.
Cosa hanno detto le più autorevoli voci della Storia dell’arte su Claude Monet:
[…] Bisogna che scriviamo un nome nuovo. Non conosciamo Claude Monet, l’autore della Punta della Hève e della Foce della Senna a Honfleur. Queste – crediamo – sono opere di inizio e vi manca quella finezza che si ottiene solamente a prezzo di un lungo studio; ma il gusto dei colori armoniosi nel gioco dei toni analoghi, il sentimento dei valori, l’aspetto dell’insieme, una maniera ardita di vedere le cose e d’imporsi all’attenzione dello spettatore, queste sono qualità che Monet possiede già ad alto grado. La sua Foce della Senna ci ha bruscamente fermati al passaggio e non la dimenticheremo più. Eccoci interessati ormai a seguire nei suoi tentativi futuri questo sincero pittore di marine […]. P. mantz, in “Gazette des Beaux-Art»”, 1865.
[…] Confesso che la tela che mi ha fermato più a lungo è Camille di Claude Monet. Si tratta d’una pittura energica e viva. Avevo percorso quelle sale così fredde e così vuote, stanco di non incontrare talenti nuovi, quando ho scorto questa giovane che si trascina il lungo vestito stagliandosi sul muro come se ci fosse un buco. Non avete un’idea di quanto sia bello ammirare un po’, quando si è stanchi di ridere e di alzare le spalle.
Non conosco Monet, credo anche di non aver mai guardato attentamente una sua tela. Mi sembra di essere tuttavia un suo vecchio amico;
e questo perché il suo quadro mi racconta tutta una storia di energia e di verità.
Qui, c’è più di un realista, c’è un interprete delicato e forte che ha saputo rendere ogni dettaglio senza cadere nell’aridità […]. E. zola, Les realiste! au Salon (Mon Salon), 1866.
[…] Oh, fu davvero una giornata tremenda quella in cui osai recarmi alla prima mostra [degli impressionisti] sul boulevard des Capucines assieme a Joseph Vincent, paesaggista, allievo di Bertin, premiato sotto diversi governi.
L’imprudente era andato lì senza pensarci, credeva di vedere della pittura come se ne vede dovunque, buona e cattiva, più cattiva che buona, ma che non attentasse ai buoni costumi artistici, al culto della forma, al rispetto dei maestri. Ah, la forma. Ah, i maestri. Non ne abbiamo più bisogno, mio povero amico! Tutto questo è cambiato.
[…] Il poveretto ansava, sragionando così, pacatamente, e nulla poteva farmi prevedere il penoso incidente che avrebbe provocato la sua visita a quella mostra.
Sopportò persino, senza prendersela di più, la vista delle Barche da pesca che escono dal porto di Monet, forse perché lo strappai a quella pericolosa contemplazione prima che le deleterie figurine in primo piano riuscissero a produrre il loro effetto.
Ebbi purtroppo l’imprudenza di lasciarlo troppo a lungo dinanzi al Boulevard des Capucines, pure di Monet.
— Ah, ah! — ghignò — questo sì che è riuscito. Eccola qui l’impressione, o altrimenti non capisco nulla; vogliate solo dirmi che cosa rappresentano quelle striscioline nere in basso.
— Ma — risposi — sono persone che passeggiano.
— Sicché, quando passeggio per il boulevard des Capucines appaio così? Fulmini di Giove;
ma, insomma, vi prendete forse gioco di me? […].
Gettai un’occhiata all’allievo di Bertin, il cui volto era adesso di un rosso cupo. Ebbi il presentimento di una catastrofe imminente; doveva essere Monet a dargli il colpo finale.
— Ah, eccolo, eccolo! — asciamo dinanzi al n. 98. — Che cosa rappresenta questa tela? Guardate il catalogo.
— Impressione, sole nascente.
— Impressione, ne ero sicuro. Ci dev’essere dell’impressione, là dentro. E che libertà, che disinvoltura nell’esecuzione! La carta da parati allo stato embrionale è ancor più curata di questo dipinto.
— Ma che avrebbero detto Bidault, Boisselin, Bertin, dinanzi a questa tela importante?
— Non venitemi a parlare di quegli schifosi pittorucoli! — urlò il povero Vincent.
L’infelice rinnegava i suoi dèi […].
Il vaso, alla fine, traboccò. Il cervello classico del vecchio Vincent, assalito da troppe parti insieme, venne sconvolto del tutto.
Si fermò dinanzi al custode che vigila su tutti quei tesori e, prendendolo per un ritratto, cominciò a farne una critica alquanto rigorosa : — Ma quanto è brutto! — fece, alzando le spalle. — In faccia ha due occhi, un naso e una bocca. Non sono di sicuro gli impressionisti che si sarebbero lasciati andare in tal modo al particolare. Con tutte le cose inutili che il pittore ha sprecato in questa faccia, Monet avrebbe fatto almeno una ventina di custodi.
— Se circolaste un poco? — gli disse il ritratto.
— Lo sentite? Non gli manca neppure la parola. Quel pedante che lo ha dipinto ce ne deve aver messo di tempo per farlo! — E per dare al suo aspetto tutta la serietà che occorreva, il vecchio Vincent si mise a ballare la danza dello scotennatore davanti al guardiano, gridando con voce strozzata: – Hugh! Io sono nell’impressionismo in marcia, la spatola vendicatrice. Boulevard des Capucines di Monet, la Casa dell’impiccato e 1′‘Olimpia moderna di Cézanne! Hugh! Hugh! Hueh'”. L. leroy, in “Le Charivari”, 1874.
[…] Ho visto spuntare l’alba di questo ritorno alla semplicità franca, ma non credevo che i suoi progressi fossero così rapidi. Essi sono fragranti, scoppiano quest’anno. La gioventù vi è lanciata tutta intera; e, senza rendersene conto, la folla da ragione agli innovatori. Sono i quadri dipinti dal vero, con l’unica preoccupazione di far giusto, che attirano; si passa vicino a pitture di maniera, cioè concepite e dipinte nello studio, senza l’aiuto del modello. Ebbene, gli impressionisti hanno avuto parte a questo movimento. Le persone che sono andate da Durand-Ruel, che hanno visto i paesaggi così giusti e vibranti di C. Monet, Pissarro, Sisley, i ritratti così fini e così vivi di Renoir o della signorina Morisot, gli interni così pieni di promesse di Caillebotte, i superbi studi coreografici di Degas, non lo mettono in dubbio. Per questi pittori, l’aria aperta è un diletto, la ricerca dei toni chiari e l’eliminazione del bitume un vero atto di fede. Sarebbe necessario che fossero al Salon per confermare con la loro presenza l’evoluzione compiuta e darle tutta la sua importanza […]. I. A. castagnary, in “Le Siecle”, 1876.
[…] L’invio di Monet si compone d’una serie di paesaggi presi dal vero al Petit-Gennevilliers o nei dintorni di Argenteuil, che si distinguono sempre per le qualità di esecuzione franca,’ di sentimento reale e di bella luce. Ma Monet ha voluto provare che sapeva fare dell’altro oltre che paesaggio. Ha aggiunto una figura di grandezza naturale, dall’aspetto più impressionante. È una parigina dal viso caparbio, dai capelli biondi, vestita con un costume giapponese di una ricchezza inaudita. L’abito di mollettone rosso è coperto di ricami in seta e oro con figure fantastiche d’un rilievo sorprendente. Con un movimento grazioso, la donna, che gioca con un ventaglio, si gira verso lo spettatore. Il personaggio si stacca su un fondo blu neutro e su un tappeto di stuoia. Gli appassionati che cercano il colore solido, gli impasti risoluti, troveranno un vero godimento in questo quadro un po’ strano […]. A Pothey in Press 1876.
[…] I ‘ghiacci’ di Monet sotto un cielo rosso sono di una malinconia intensa e i suoi studi di mare con le onde che si infrangono sugli scogli sono le marine più vere che io conosca. Aggiungete a queste tele, alcuni paesaggi, delle vedute di Vétheuil e un campo di papaveri fiammeggiante sotto il cielo pallido, di un colore ammirevole. Certo, il pittore che ha dipinto alla brava questi quadri è un gran paesaggista il cui occhio, ora guarito (ci tiene!) coglie con sorprendente fedeltà tutti i fenomeni della luce. Come è vero il pulviscolo delle sue onde sbattute da un colpo di sole, come scorrono i suoi fiumi, screziati dai formicolanti colori delle cose che vi si riflettono, come nelle sue tele il piccolo soffio freddo dell’acqua sale nel fogliame e passa sulle punte dell’erba! […] È con gioia che posso fare l’elogio di Monet. poiché è ai suoi sforzi e a quelli dei suoi colleghi impressionisti del paesaggio che soprattutto si deve il riscatto della pittura […]. Pissarro e Monet sono infine usciti vittoriosi dalla terribile lotta. Si può dire che i problemi così ardui della luce, nella pittura, si sono infine sciolti sulle loro tele […]. J. K. huysmams, L’Art Moderne, 1883.
[…] Da migliaia e migliaia d’anni l’occhio umano è di fronte al pianeta che gli rimanda tutto palpitante, le onde di vita scaturite dall’incendio solare. Tutto ciò che ci è pervenuto dei monumenti dell’arte, dalla scure primitiva di una proporzione felice e di una colorazione potente, dai profili d’orso e di mammut che un Leonardo dell’età della pietra disegna sulle ossa del museo di St. Germain fino alla Cattedrale di Monet, ci permette d’apprezzare sommariamente le fasi di visione per dove la nostra razza è passata. G. clemehceau, in “La Justice”, 1895.
[…] In generale un motivo semplicissimo basta a Monet, un mucchio di fieno, qualche tronco esile che si eleva verso il cielo, un gruppo di arbusti. Ma si afferma anche disegnatore potente quando affronta temi più complessi. Nessuno come lui sa ergere una roccia nelle onde tumultuose, far comprendere l’enorme struttura di uno scoglio che riempie tutta la tela, disporre un villaggio su una collina dominante un fiume, dare la sensazione di un gruppo di pini contorti dal vento, gettare un ponte su un fiume, esprimere il carattere del suolo che giace sotto il sole dell’estate. Tutto ciò è costruito con vastità, esattezza e forza, sotto la sinfonia deliziosa o ardente degli atomi luminosi. I toni più imprevisti si alternano nel fogliame; da vicino ci si stupisce di vederlo listato con strisce arancio, rosse, blu, gialle, e a distanza la freschezza delle fronde verdi appare evocata con infallibile verità.
L’occhio ricompone ciò che il pennello ha dissociato e ci si accorge con stupore di tutta la scienza, di tutto l’ordine segreto che ha diretto questo ammucchiamento di macchie che sembravano spruzzate in una pioggia furiosa. È una vera musica d’orchestra in cui ogni colore è uno strumento con un ruolo distinto, e i cui momenti, con le loro tinte diverse, costituiscono i temi successivi. Monet resta uno dei più grandi paesaggisti nella comprensione del carattere proprio di ogni suolo studiato, ciò che è la suprema qualità della sua arte. C. mauclair, L’Impressionnisme, son histoire, son esthétique, ses maìtres, 1904.
[…] Un tema unico in queste tele, unico e tuttavia diverso : il Tamigi. Fumo e nebbia ; forme, masse architettoniche, prospettive, tutta una città sorda e grondante nella nebbia, nebbia essa stessa; la lotta della luce, e tutte le fasi di questa lotta; il sole prigioniero della foschia, oppure che perfora, in raggi scomposti, la profondità colorata, irradiante, formicolante dell’atmosfera ; il dramma molteplice, infinitamente mutevole e sfumato, oscuro o fantastico, delizioso, fiorito, angoscioso, terribile, dei riflessi sulle acque del Tamigi; incubo, sogno, mistero, incendio, fornace, caos, giardini galleggianti, invisibile, irreale, e tutto ciò dalla natura, quella natura particolare a questa città prodigiosa, creata per i pittori e che i pittori, fino a Monet, non hanno saputo vedere, non hanno potuto esprimere: di cui essi hanno visto ed espresso solamente l’esile accidente pittoresco, l’aneddoto piatto, ma non l’insieme, ma non l’anima fumosa, magnifica e formidabile, che è qui davanti a noi finalmente realizzata. O. mirbeau, Vues de la Tamise a Londres, 1904.
[..,] Monet non coglie più la luce con la gioia della conquista di colui, il quale, avendo atteso la sua preda, si contrae per trattenerla. Egli la traduce come la più sensibile fra le danzatrici traduce un sentimento.
Si combinano dei movimenti e non sappiamo come si scompongono. Sono così ben legati gli uni agli altri che paiono un unico movimento, cosicché la danza è chiusa e perfetta come un cerchio […].
Nessun pittore ormai potrebbe liberarsi dei problemi che Claude Monet ha posti o risolti. L’opera di Claude Monet è passata già nel linguaggio della pittura, come l’opera di uno scrittore di genio passa nel linguaggio scritto e l’arricchisce. Non è questione di pittura chiara o di pittura scura. II problema della luce è più vasto di quello della luminosità. Un Rembrandt che nascerà domani dovrà della gratitudine a Claude Monet. O. mirbeau, Les ‘Venise’ de Claude Monet, 1912.
Dopo aver dipinto pagliai e cattedrali,
II grande mare e la foresta
E lunghi pioppi dalle cime ineguali,
La notte che si avvicina e il giorno che appare;
Dopo aver dipinto il fiume dalle anse lente E la dolce prateria dai lontani orizzonti E le rocce infuocate e i greti brucianti, Le albe, i meriggi, le sere e i mattini;
Dopo aver dipinto il vento e la luce
E l’aria mutevole nelle stagioni
E la faccia pura e grave della terra
Che la neve riveste col suo bianco mantello;
Dopo aver dipinto mille tele, trofeo Smagliante e sereno che non guasta nessun fiele, Siete venuto a sedervi sulla riva della Ninfea Dove si addormenta l’acqua fiorita sotto il cielo;
Ogni fiore specchiato nell’acqua che lo riflette Vi offre i suoi colori per incantarvi gli occhi E ogni foglia è una tavolozza Che, docile alle vostre dita, vi invita ai suoi [giochi ;
Poiché ne il tempo, ne la fatica, ne la gloria, ne
[l’età Ne il suo grande sforzo hanno stancato la vostra
[mano, E per voi, o Monet, il più bei paesaggio Sarà sempre quello che dipingerete domani. H. de régnier, Claude Monet, in “Le Mercure de France”, 1921.
[…] Monet non si è limitato solo alla giustapposizione dei toni e, quindi, all’analisi della luce; egli ha liberato la pittura del suo tempo dal metodo accademico degli impasti tradizionali, rigettando l’ispirazione letteraria o allegorica, e, in virtù del suo temperamento anticlassico, l’ha ricondotta a un sano realismo. […]
È logico dunque che questo ribelle (ricordiamo qui Jongkind e Boudin e i primi anni. in faccia al mare a Le Havre) pur nell’ossessio-nante ricerca di cogliere le infinite variazioni luminose, errando talvolta nell’applicare il ‘meto do’ a tali ricerche, dovesse giungere, negli ultimi anni, ai limiti estremi della sensibilità, col dar vita al suo sogno delle Ninfee. La pittura di Monet, liberata da ogni interpretazione critica o letteraria, è “osservazione di valori più delicati nei toni” e, si può aggiungere, miracolo di gusto nell’armonizzarli. E non è poco, anche se le parole son nude. […]
Nelle Ninfee, abbandonata la giustapposizione, Monet raggiunge, con maggiore intensità, la luce, con robusti impasti sulla tavolozza, e con sapienti realizzatrici sovrapposizioni. Mettiamo oggi accanto a questo miracolo luminoso una tela di Seurat o di Pissarro : apparirà grigia.
Le Ninfee per tale connubio delle qualità istintive del genio di Monet, dettato solo dalla sensibilità, senza restrizioni teoriche, son lì a dire quanto fosse vitale l’impressionismo per giungere a così grandi altezze, fuori dei limiti di quelle leggi che regolano […] – ahimè! – la pittura proprio nel tempo in cui il cubismo era già passato alla storia e cento altre scuole si susseguivano febbrili, secondo il costume di questo secolo irrequieto di ricerca.
E troppo si dimentica – mentre le Ninfee son lì a dirlo, trionfali – quanto deve tutta la pittura moderna all’impressionismo che, oggi, con tanta leggerezza rinnega. G. marchiori, in “Corriere Padano”, 21 luglio 1931.
La frase di Cézanne: “Monet non è che un occhio, ma […] che occhio”, indica chiaramente la funzione del pittore nella storia del gusto, ma non basta a giustificare la sua arte. […]
Senza dubbio Monet è stato un genio inventivo della visione, ha saputo vedere nel rapporto di luci e di colori quello che nessun altro, prima di lui aveva veduto. Per la sua concentrazione nella luce e nei colori, ha trovato la forma più adatta ai valori di luce-colore, astraendoli dagli altri elementi della pittura ed esaltandoli. Ne basta, perché dipingendo col preciso intento di rappresentare luce-colore, ha escluso spontaneamente, quasi senza awederse-ne, ogni elemento esteriore letterario sociale, come e più radicalmente di quel che aveva fatto Manet. […]
La conquista dell’autonomia dell’arte era cosi compiuta, e tutta la pittura d’allora in poi si è diretta al medesimo fine. […]
[Nelle ‘serie’] Monet cerca i motivi di eccezione, s’immerge in tentativi impossibili, si dichiara disgustato di tutto ciò che riesce facilmente, e fa prodigi di abilità tecnica. Le sfumature sono omogenee, rigorosamente concertate. Ma più le sfumature si affinano, meno conservano la loro vitalità, più la luce è curata e ricercata, meno essa si sprigiona da una nebbia che tutto avvolge e che cancella l’oggetto rappresentato. Quel che resta è un bisogno di grandezza, di potenza, di sforzo eroico. Certo lo studio della luce nelle serie è un programma scientifico, ma la realizzazione pittorica rivela tendenze sentimentali. L’espressione dell’inesprimibile, del mistero, di sentimenti così generali che perdono il loro carattere concreto e la loro evidenza artistica, rivela in Monet quel medesimo gusto donde nacque il simbolismo. Qui Monet appare un velleitario, perché quel che rimane in lui d’impressionismo gli impedisce di realizzare appieno il nuovo ideale. L. venturi, Les Archives de l’Impressionnisme, 1939.
[…] La posizione di caposcuola avuta da Manet prima del 1870 passa incontestabilmente a Monet nella decade successiva, che si può considerare la più gloriosa dell’impressionismo e che viene a ragione definita il periodo di Argenteuil.
L’amicizia, la fiducia da cui si sente circondato in campo artistico, l’eccitazione della scoperta portano Monet al suo pieno fulgore. Senza abbandonare del tutto la figura e le scene di interni di cui abbiamo molti esempi notevoli datati al 1874, l’artista sembra trovare nel paesaggio la sua naturale vocazione espressiva. Il Ponte della ferrovia, le Regate, le Barche a vela, il Bacino di Argenteuil senza dubbio sono i capolavori suoi e le più perfette realizzazioni dell’impressionismo, in cui la spontaneità della visione sviluppa di necessità la magia di uno stile nuovo. Monet accentua e scompone il colore puro con un’arditezza senza pari, non solo per esaltare la superficie della tela – massima preoccupazione di un pittore – ma anche per esprimere concretamente la trasparenza e la vibrazione dello spazio, il luminoso volgere del sole, il moto della luce che è la festa e la vita eterna della natura. […] L’infallibile precisione dell’occhio da il senso della pienezza della visione. Monet ha confidato a un giovane pittore che avrebbe desiderato nascere cieco e recuperare all’improvviso la vista per non sapere nulla degli oggetti e trovarsi in uno stato vergine davanti alle apparenze, desiderio che serve a chiarire paradossalmente la sua estetica della sensazione. Nel momento in cui i filosofi discutono circa la preminenza della vista e del tatto nella rivelazione del mondo esterno, istintivamente egli accorda alla vista una funzione assoluta e autonoma, al contrario del realismo per il quale la vista era semplicemente un organo sussidiario J. leymarie, L’Impressionnisme, 1959.