Citazioni e critica su Giovanni Segantini (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)
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Cosa hanno detto i critici della Storia dell’arte su Segantini:
Ogni maggior entusiasmo che noi mettiamo nell’onorare il nostro grande estinto è tanto di guadagnato sull’apatia di un popolo che ha scordato i grandi ideali per prostituirsi (adopero una frase comune, ma vera) in nefandi amori colla burocrazia …. (G. Pellizza).
E fu pensiero gentile di non scordare, dovendo scrivere di Segantini, un altro scomparso negli ultimi tempi : Filippo Palizzi, poiché lui pure fu un forte la di cui arte fu sprone alle conquiste nuove. Prendo nota di una tua espressione al riguardo del primo : “E nei suoi paesi, non un sasso, non una ruga di roccia possono essere spostati senza danno“. G. pellizza, cartolina a Ugo Ojetti, 23 novembre 1899.
Quella squisita sensibilità del sistema nervoso, che dava a Segantini il dono di afferrare e di rendere le più sottili delicatezze del bello naturale, era la causa stessa di una irritabilità, divenuta, non più occasionale, ma organica. La difficoltà dei primi passi, l’ostilità palese o tacita con cui egli veniva accolto dalle nullità boriose, dai mediocri fortunati, dai buoni istessi, a cui egli inspirava più ripulsione che simpatia, causa le stesse, conformi, espressioni dell’indole e dell’arte, mentre davano alle sue opere un senso di combattività, che a prima vista le rendeva meno attraenti, lo teneva personalmente in una specie di effervescenza spirituale, che era essa pure come uno stato di guerra permanente. Ogni giorno, ogni quadro, erano per lui una battaglia; ed era tale il commovimento interno che lo agitava lavorando, tale la lotta che, dipingendo, egli immaginava di durare con gli avversari suoi e dell’arte sua, che, se non riusciva a distraine il pensiero, era costretto a buttare i pennelli.
Egli stesso avvertiva il pericolo di questa auto-suggestione; ed era appunto per sottrarvisi che aveva adottato l’espediente di farsi leggere, mentre lavorava, i libri che andavano poco a poco formando, così, la sua coltura, disordinata, ma geniale. Il che però non tolse che una tale predisposizione non si riflettesse nell’opera sua; al punto da provocare a tutta prima negli osservatori anche più intelligenti e meglio disposti un senso di disagio, a cui non tardava a succedere un’ammirazione convinta, un godimento più che semplicemente estetico. Che il risultato di quella lotta immaginaria era sempre, caso per caso, una vittoria per l’artista unico, singolare.
Dato ciò, data la funzione di stimolante che questo atteggiamento del carattere esercitava, data l’intensità derivantene nell’intenzione artistica e nella produzione — ove alla prima concezione, dal movente puramente estetico, tosto si accoppiava l’idea della lotta che l’opera avrebbe affrontato; data la solitudine, epperò la generale, consuetudinaria esagerazione teoretica nell’esercizio del proprio io e delle proprie ragioni, è naturale che ai primi, e tanto più ai rinnovati successi, la coscienza della propria personalità andasse ampliandosi, con una quantità di nuovi elementi men naturali e meno assimilati, sicché si alterassero nel suo pensiero le proporzioni del vero intellettuale, mentre rimaneva meravigliosa la sua percettibilità del vero fisico. È naturale che poco a poco al primitivo concetto organico della uguaglianza dell’uomo con tutte le cose create, si andasse sostituendo un criterio, certo nobilissimo, ma eccessivo, della missione umana, sia di fronte alla umanità stessa, sia di fronte alle altre cose create.
Questa specie di sovranità quasi, dirò così, magica, che per lui si andava incarnando nell’uomo, nobilitava bensì la sua concezione della vita, ma gli imponeva di legiferare, nuovo Mosè, nuove leggi. Le quali, però, non avendo un fondamento abbastanza solido in tutto un sistema organico, innato e acquisito, fa. non riusciva a esprimere con esatta efficacia di propaganda.
Così, egli aveva ben potuto salire, salire sulla montagna, per avvicinarsi alla fonte della luce; non era meno per questo costretto alla terra.
Ora io non so se quelle letture, pure in parte propizie, perché giovavano a sedare nel suo cervello la battaglia delle idee che nell’opera d’arte in corso di esecuzione non potevano tutte essere utilizzate ed espresse, non siano anche riuscite, insieme, dannose, e se meglio non gli avrebbe giovato quella felice ignoranza, che lo avrebbe lasciato immune da ogni influsso non naturale, e non lo avrebbe portato in quelle regioni dell’iperbole, ove, a chi lo avvicinò negli ultimi anni, egli parve considerare e sé stesso, e la funzione e la missione della sua vita, in un grado e in un modo che non erano più in rapporto diretto con la realtà della vita stessa e col vero suo compito nell’arte. P. levi, 11 prima e il secondo Segantini, in ‘Rivista d’Italia, 1899, XI.
Ci troviamo a duemila o duemilaquattrocento metri d’altezza. L’aria è sana, umida; l’atmosfera, molto rarefatta. Per quanto l’occhio riesca a spingersi lontano, penetra tutto ciò che scorge. E quelle cime : abissi le separano da noi, eppure s’impongono, entrano nel dipinto con tutta la loro densità e con la tensione dura e sonora dei larici, delle genziane, dei ranuncoli, dei doronici e dei rododendri che abbiamo sotto i piedi. Non ci sono più le brume e le lontananze di sogno della bassa Svizzera;
ma un abbaglio di chiarità penetranti fino nei menomi recessi del paesaggio : tutti i colori cantano ; le ombre sono parenti poveri, parenti però della luce. È la definizione stessa dell’impressionismo;
ne ci si deve stupire che, senza conoscere le ricerche dei Monet e dei Signac, Segantini sia stato parallelamente condotto alla medesima tecnica; la natura dell’alta Engadina, essa sola si è incaricata di insegnargliela. Si scorgono, nelle gole dell’Albula, acque verdi arancione lillà, come Besnard non ha mai avuto il coraggio di dipingerne; sulle cime dello Schafberg, di sera, si vedono incendi come Monet non ne ha accesi mai. Lassù, le fanfare più splendenti dei nostri luministi vengono subissate, in certi momenti, dalla luce naturale. L’Engadina vendica la Svizzera delle vecchie banalità. R. de la sizeranne, in “Revue de l’art ancien et moderne”, novembre 1899 Per la morte di Giovanni Segantini.
Implorazione dei monti, voci del regno alto e santo,
dolor selvaggio dei vènti combattuti, profondo pianto
delle sorgenti pure,
quando l’ombra discesa da un più alto regno benda
la rupe e il ghiacciaio albeggia solo come un camino che attende
grandi orme venture!
Salutazione dei monti, coro delle gioie prime, laude impetuosa dei torrenti, fremito delle cime percosse dalla meraviglia quando si fa la luce nelle vene di pietra come nelle fibre del fiore perché Demetra rivede la sua figlia!
Dominazione dei monti, purità delle cose intatte,
forza generatrice delle fiumane provvide e delle schiatte
armate per l’eterna guerra,
mistero delle più remote origini quando un pensiero
divino abitava le fronti emerse dei mari! O mistero,
purità, forza sopra la Terra!
Spenti son gli occhi umili e degni ove s’accolse l’infinita
bellezza, partita è l’anima ove l’ombra e la luce la vita
e la morte furono come una sola
preghiera, e la melodia del ruscello e il mugghio dell’armento
[e il tuono della tempesta e il grido dell’aquila e il gemito dell’uomo furon come una sola parola,
e tutte le cose furono come una cosa sola abbracciata per sempre dalla sua silenziosa potenza come dall’aria.
Partita è su i venti ebra di libertà l’anima dolce e rude di colui che cercava una patria nelle altezze più nude sempre più solitaria.
O monti, purità delle cose intatte, forza, mistero sopra la Terra, ella va e ritorna come un pensiero immortale sopra la Terra. O monti, o culmini, il suo dolore fu come la vostra ombra sopra la Terra. La sua gioia sarà oltre la sua tomba
un palpito della Terra. G. d’annunzio, da Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, 1903-04
Ho scelto una ventina di pietruzze sul torrente che scende verso il paese. Mi pare di vedere in esse l’origine della pittura di Segantini, l’embrione della sua tecnica. Non era un divisionismo il suo, ma piuttosto una tersità colta in natura e tradotta per colore. G. Pellizza, da una lettera, di giugno o forse luglio 1906
Ho veduto volare un piccione e come sempre mi ripeto l’idea che nell’arte moderna si sia obliata la poesia che io chiamerei dell’attimo. Pochi quadri moderni che esprimano modernamente (nel senso più assoluto) il cadere d’una foglia, il volo d’un uccello, l’intimità d’un piccolo angolo vivente, […] una nuvoletta dal profilo delle cose ecc. […] e tutte quelle sfumature particolari che commuovono nei quadri passati. Mi sembra che si creda che tutto questo nuoccia all’abilità e alla impronta di abilità che si vuole ostentare nei quadri. Aveva ragione Segantini di dire di ritornare all’umile margherita del prato, lasciando le arie di abili artistoni. Ugo Boccioni dal suo diario 14 marzo 1907.
Tra le nevi di inverni quasi polari, sul Maloja (Alta Engadina), dipingeva per lunghe giornate, all’aria aperta, senza irritarsi per il freddo che gelava il colore sulla tela. Le immagini della Vita e della Morte si presentavano al pittore con una semplicità solenne, nell’austera dimora delle nevi immacolate. Nella grandezza tragica del paesaggio, il gesto semplice dei rari uomini assumeva l’importanza di un atto eterno, al quale partecipavano silenziosamente le cose intorno.
Il dolore degli umili, che hanno come spettatori il ghiacciaio e il bosco, si spande e grandeggia nel deserto infinito. Questo dolore non porta maschera, non conosce ne la menzogna convenzionale ne la posa teatrale : verità grande e unica al cui confronto il dolore nelle città si mostra con le apparenze ridicole di uno spettacolo di marionette. A. locateli, milesi, L’ouvre de Giovanni Segantini, 1907.
II Sig. Chiattone m’ha prestato un libro su Segantini di Primo Levi! Non ho ancora finito ma non so cosa scrivere, tanto mi commuove l’opera, la vita, l’anima di quel grande! Trovo giustissimo — perché lo provo io nel mio piccolo — l’effetto che in Segantini produceva la solitudine — Beata solitudo sola beatitudo. U boccioni, dal Diario, 1° aprile 1908.
Noi non siamo affatto fanatici ammiratori della pittura segantiniana, anzi sono molte le ragioni che ce la fanno apparire inaccettabile in tutte le sue parti, e quindi possiamo anche riconoscere giusti i rimproveri che al Segantini muoveva il Grubicy;
sia per quel che riguarda la poca sorveglianza ch’egli metteva nel suo lavoro, sia anche per quel miscuglio di bambineria e di epicità da cui tutta l’opera è pervasa. Ma il credere che un artista rude e fiero, quasi allo stato selvaggio, quale era il pittore di Arco, si correggesse dei suoi errori di direzione pel tramite di parole altrui, ci è sempre parsa cosa insensata e sommamente pretenziosa.
Qui sta l’errore psicologico più grave in cui è scivolato l’attento critico. La pretesa è profondamente ridicola, per il fatto semplicissimo che l’opera di Segantini trova appunto in questo curioso miscuglio la sua più alta ragione di essere. Tutto questo potrà sorprendere coloro i quali cercano nell’opera del celebrato trentino ciò che non v’è, vale a dire Punita e la bellezza, non noi che di quella pittura panoramica e contraddittoria, modestia a parte, conosciamo tutte le vibrazioni. … … C. carrà, Vittore Grubicy, m “II primato artistico italiano”, 1920-6.
La pittura di Segantini, maiuscola e poderosa, solenne e distante, impassibile e sovrana, rispecchia e costituisce una realtà diversa e separata da noi viandanti esili e affannati.
Non dipingeva con l’ansietà degli altri, i quali sanno bene che l’effetto è passeggero e che bisogna affrettarsi per accoglierlo in stato di grazia, che davanti allo stesso punto (vedi Monet) cambiavano dieci telai al giorno mentre la luce appena cambiava. Una volta che aveva piantato il telaio sul vero, Segantini tornava a dipingervi metodico e calmo, giorni e giorni, mesi e mesi. Non era l’apparenza, era la sostanziosa realtà delle cose che voleva realizzare, trasformare cioè in un’altra realtà, per quanto fosse possibile, equivalente. Aveva detto a se stesso che doveva conquistare (la parola è storica e documentata sua) quello che vedeva, e nel suo linguaggio d’uomo di forza e di parola, d’uomo solingo che, non perdendo tempo col prossimo, tempo non gli mancava, ‘conquistare’ significava rendersi conto ostinatamente e meticolosamente della struttura di ogni forma, della qualità d’ogni colore, sondando e analizzando ogni elemento creato, anche un filo d’erba, nonché delle proporzioni degli equilibri delle simmetrie che formavano l’ossatura di quel pezzo d’universo e cui s’era posto di fronte; e poi concretare la struttura d’ogni forma, la qualità d’ogni colore, l’ossatura del paesaggio in termini corrispondenti, adeguati non al respiro corto della creatura passeggera ma al respiro immenso dell’universo perenne. E poiché la natura consiste anche nel suo eguale sopravvivere, nella sua stabilità e perpetuità contrapposte a tutto ciò che di noi trascorre continuamente e continuamente si cancella, la pittura di Segantini interpretò l’immobilità e l’immutabilità dei prati delle rupi dei cieli, l’eternità delle cose che ci sembrano eterne. Così l’arte sua veniva conformando il proprio stile idealistico, per la strada maestra e prudente del proprio naturalismo integrale. […]
La pacificata lucidezza dei sensi e della niente causata da un sistema di lavoro tanto lenitivo e da un tenore di vita tanto rassicurante, fomentata dall’esercizio quotidiano di un’attività regolatissima, gli conferì la capacità di abbracciare e di erigere visioni grandiose ; e fu anche questa una prerogativa sua, che gli altri pittori, di fronte alla difficoltà di riconoscere e di rappresentare lo spazio in lungo e in largo, si limitano di solito a considerare qualche frammento esiguo che ne palesi o ne suggerisca un’impressione indiziaria. Nutrito delle briciole di Monet, corroborato dai sunti sostanziosi di Gézanne che se fossero più dilatati sarebbero meno espressivi, il paesaggio moderno, resoconto lirico d’impressioni soggettive e però relative e fugaci, consiste pertanto in scorci e frammenti. Ed è bene che sia tale, ne si pretende che ci dia altro o di più di quello che ci da. Le rappresentazione paesistiche sistemate studiatamente con rispondenze preziose di linee e di masse, non sono in generale che ritorni larvati alle ricercatezze delle vecchie vedute o rigurgiti di costumanze decorative strapassate.
Ma di Segantini che anche per questo, in onta alla sua apparente normalità, è poi un pittore d’eccezione, è caratteristica la vastità legittima dei tagli e dei formati. I suoi paesaggi si estendono talora tra confini terreni talmente distanti e sotto cieli talmente spaziosi, che le genti che vi dimorano ne sono sopraffatte. Codesta vastità non è però ne superflua ne arbitraria, ne potrebbe essere minore o diversa da quella che è. È istituita in conformità di una proporzione indefinibile ma certa, d’un equilibrio inderogabile e tale che le sue leggi e le sue cause non possono identificarsi, ma pretendono quei limiti distanti, pretendono quei cieli sterminati. Li pretendono e li stabiliscono nei punti dovuti. Ne fissano le proporzioni che non potrebbero essere diverse. Dirigono gli sviluppi, decidono i rapporti interni del paesaggio che non potrebbe sistemarsi ne cor-rispondersi in altra guisa. È ancora da notare che i paesaggi grandi degli altri, a rifarsi dai più venerabili, vengono suddivisi e scanditi dalla varietà dei propri elementi, come l’affresco trecentesco della Vita agricola sotto il buon governo nel Palazzo di Siena, tutto a dossi colline colture alberi paesi e popolo che s’industria in cento modi; o vengono scompartiti dalle figure o dalle altre masse che scompongono il paesaggio in tanti pezzi, sostituendo ai suoi ritmi e alle sue leggi gl’intervalli e i riscontri delle proprie situazioni contingenti ed intruse. Il paesaggio di Segantini domina le figure quando non le assorbe e se le assimila, e la sua immensità schematica e solitaria è ridotta sovente a un concerto essenziale di terra e di cielo, separati dal parco frastaglio delle cime imminenti al pascolo sublime. N Barbantini , Giovanni Segantini, 1926.
Nell’impianto a grandi sbattimenti d’ombre e fulgide rastremature […] Alla stanga riassume, in una sorta di commiato, la storia della formazione di Segantini attraverso il chiaroscuro lombardo-piemontese. Le due madri (1889), Nell’ovile, ecc. ancora rievocheranno questa storia, in soavissime meditazioni notturne. Ma l’artista è ormai esaltato, in una regione, fisica e fantastica, di realtà e presenze elementari e immutabili, il sole, l’acqua, le rupi, sospesi in un perenne meriggio, nel quale l’ombra a pie della figura scivola e sparisce come la serpe sotto il sasso, e gli aspetti della creazione brillano in una stupefatta lenticolare nitidezza. La Pastora che fa la calza. Meriggio, Vacche aggiogate (1888), l’Aratura (1890) rappresentano così il Segantini essenziale; prima che la visione gli sconfini nel panoramico, e che dalla natura, quasi troppo a lungo fissata, germogli e ramifichi, in un incubo cristallino, la negra araldica dei simboli, sull’abbagliante risalto delle nevi; prima che l’austero trasporto d’affetti si affini in quel desolato struggimento che nelle ultime opere esala come un’ansietà mortuaria. E. Cuccai, Pittura italiana dell’Ottocento, [1926].
Giovanni Segantini ha diritto a un posto durevole nella nostra memoria. È stato, a parte la teoria del divisionismo e ogni questione di tendenza, per molti anni il centro di attrazione della gioventù italiana alla quale noi appartenevamo; è stato l’eroe, l’idolo della nostra fanciullezza. Si giurava sulla sua arte come il vangelo della vera pittura moderna. Ma se ebbe ammiratori entusiasti ebbe anche avversar! irriducibili. Sul principio del nuovo secolo, le sue tele sollevavano ancora clamori. Ora, possiamo anche sorridere di quel tempo lontano. Passati sono gli anni della fanciullezza incauta. Ma la vita di Segantini resta egualmente tipica, esemplare. C. Carrà, Revisioni critichi: Giovanni Segantini, in “L’Ambrosiano”, 12 agosto 1935.