Pagine correlate ai Macchiaioli: Opere di Giovanni Fattori – Cenni sul movimento macchiaiolo, le opere dei macchiaioli ed i pittori macchiaioli – Il Realismo italiano – Pittura Veneta dell’Ottocento.
I Pittori Macchiaioli
Al nuovo e caratteristico movimento dei macchiaioli si associano pittori provenienti da gran parte d’Italia, con inclinazioni politiche democratiche, che prendono parte alle guerre del risorgimento.
Il periodo più attivo di questo gruppo dura soltanto pochi anni, dal 1854 al 1860.
Entro breve tempo emergono dentro il movimento contrasti riguardanti lo stile, le tradizioni regionali e soprattutto le differenze di personalità.
Tra i maggiori rappresentanti del gruppo si annoverano i toscani Giovanni Fattori (Livorno 1825-1908), Raffaello Sernesi (1838-66), Adriano Cecioni Odoardo Borrani (1834-1905) e Telemaco Signorini (1835-1901). Tra quelli appartenenti ad altre regioni si ricordano il laziale Giovanni Nino Costa (Roma 1826-1903), il campano Giuseppe Abbati (Napoli 1836-68), il veneto Federico Zandomeneghi (Venezia), il romagnolo Silvestro Lega (1826-95) e Giovanni Boldini (Ferrara 1842-1931).
La scelta, orientata verso un più ampio panorama cosmopolita e una netta rottura con l’arte provinciale ottocentesca italiana, è ben salda in Telemaco Signorini, uno tra i fondatori del gruppo, e in Diego Martelli (1838-96) critico ed anche grande interessato promotore d’arte, autore di studi dedicati all’Impressionismo ed ai rapporti tra romanticismo e realismo.
I punti di ritrovo e di scambio culturale non sono più l’Accademia e le scuole, ma il Caffè Michelangelo sul Belvedere, con una vastissima panoramica di Firenze.
La natura viene rappresentata filtrata e priva di una qualsivoglia definizione letteraria. I macchiaioli prendono coscienza di un’arte fondata su ricerche di sintesi, regolata nella variazione del tono e pronunciata in modo assai distinto nello spazio: non tanto dagli effetti prospettici, quanto dal rafforzarsi o dall’indebolirsi della modulazione cromatica.
La macchia di colore sulla tela nella didattica napoletana ha un più chiaro e caratteristico valore, cioè quello di avere come fondamenti un marcato contrasto di chiaroscuro, ottenuto con l’accostamento di pigmenti a gradazioni ben distinte. In tal modo si acquisiscono specifiche nitidezze e precisi profili nei contorni, a dispetto delle convenzioni canoniche e didattiche del disegno.
Frammenti
- Il movimento macchiaiolo nasce a Firenze dalle riunioni al Caffè Michelangelo.
- Il movimento macchiaiolo è una fra le più importanti tendenze dell’Ottocento.
- Il termine “macchiaiolo” è stato lanciato nel 1862 dalla Gazzetta del Popolo.
- Il gruppo macchiaiolo avrà dei problemi per l’eterogeneità dei suoi componenti.
- Adriano Cecioni è il teorico del movimento. Un altro teorico è Diego Martelli. Un esponente di spicco è Giovanni Fattori.
- Frammento di curiosità: Giovanni Fattori, Silvestro Lega e Nino Costa, in pieno movimento macchiaiolo, hanno avuto dei momenti in cui si sono sentiti poco convinti di appartenere a tale movimento artistico. Nino Costa si sente vicino a Corot, Silvestro Lega aderisce al movimento con riserva e Fattori ha bisogno di ripetute richieste da parte di Nino Costa per passare alla tecnica macchiaiola.
Citazioni degli studiosi di Storia dell’arte su Fattori e sui macchiaioli
(tratto da A. soffici, Giovanni Fattori, “Valori plastici” 1921)
… ci domanderemo prima di tutto quale fosse la visione che Fattori ebbe della realtà. Rispondere a questa domanda vorrà dire stabilire a un tempo uno fra i caratteri principali della sua pittura, sia per ciò che concerne gli argomenti trattati e il modo di trattarli, sia per quel che tiene allo spirito e allo stile della pittura stessa. Difatti, basterà dire che quella visione si può definire — con parola deformata dall’uso, ma che qui s’intende di riportare al suo significato genuino — realistica, per capire che gli argomenti prescelti dal pittore toscano non poterono essere se non quelli che la realtà di ogni giorno offre a chiunque non interpone fra sé e il mondo reale alcuno schermo intellettualistico o teorico, come lo stile doveva essere necessariamente adeguato alla loro espressione pittorica: uno stile, cioè, risultante dall’osservazione di quella realtà, e da un’aderenza sempre più stretta al vero. S’intende aderenza spirituale, semplice, schietta, non però pedissequa, e che anzi comporta larghezza, profondità ed indipendenza.
Ora, tali furono appunto gli argomenti e lo stile di Giovanni Fattori. Il quale, salvo in qualche dipinto della sua giovinezza, non s’è mai dipartito dalla linea naturale che il suo modo di vedere gli tracciava impellentemente. Ond’è che per un quadro o due di storia o di leggenda malamente concepiti e condotti, tutta a sua produzione è una serie di raffigurazioni dirette della più comune vita degli uomini, degli animali, degli aspetti più ordinari dei paesi e delle cose; e la sua maniera di esprimersi, una trascrizione il più possibile esatta ed appropriata di come tutto ciò si rifletteva nella sua pupilla e, per questo tramite, nella sua anima franca di pittore poeta.
Senonché, questo che potrebbe esser detto per ogni altro artista vero, va specificato nel caso suo con qualche considerazione di un ordine più particolare ed intimo. E ciò perché quando si opera, come si è visto che usava Fattori, indipendentemente da qualsiasi partito preso di carattere dottrinale o cerebrale, non tutti si arriva allo stesso genere d’immediatezza rappresentativa: e c’è realismo e realismo. C’è un realismo che si manifesta prevalentemente nella imitazione materiale, diciamo meglio sostanziale del soggetto, senza che il pittore segua troppo puntualmente le forme della natura apparente, ed anzi le violenti e le deformi secondo un concetto estetico che porta con sé; come avviene, ad esempio, per Michelangelo e Cézanne; ce n’è un altro, invece, che nell’osservanza scrupolosa di quelle forme trova un’espressione altrettanto chiara — con un poco di sacrificio, è vero, della vastità monumentale che una maggior libertà d’interpretazione permetterebbe di raggiungere -. Ma ciò che perde in ampiezza lo guadagna in intimità.
Il realismo di Fattori è di quest’ultima specie. Le sue opere capitali lo dimostrano, si tratti di paesaggi, di spetta coli di vita militare; pastorale o agreste; ma specialmente i ritratti, dove la fedeltà alle forme del modello vivo è piena, assoluta, e quale raramente si riscontra in simile genere di lavori, ove non si tratti di copie triviali e fotografiche della figura ritratta ma di creazioni d’arte veraci e belle.
È questo il primo elemento dal quale emergono tutti gli altri… Giacché ove il Fattori, insieme a questa virtù di rendere, dipingendo, con precisione gli aspetti della realtà, non possedesse anche quella di farlo con ricchezza di mezzi squisitamente artistici e con perfetta scienza, l’opera sua non potrebbe nemmeno allontanarsi — o ben poco – dalla trivialità e dal fotografismo da cui abbiam visto che pur si allontana del tutto, non solo, ma che in ciò consiste anzi il suo merito capitale.
La verità è che Giovanni Fattori era ricco, anzi ricchissimo, di tali mezzi e di tale scienza … Consistevano, i primi, anzitutto nella finezza e varietà del colorito, nella sicurezza penetrante del disegno, nella sapienza del taglio e della distribuzione delle masse sopra la superficie del quadro. Infatti, chi guarda un dipinto di Fattori, non può fare a meno di notare come nessuna volgarità o faciloneria artistica, ma, al contrario, il più aristocratico senso dell’eleganza, presiede all’organizzazione dei toni, al passaggio dall’uno all’altro, alla loro armonizzazione; come ciascuna parte della tela sia inoltre vivificata da un giucco complesso e raffinato di sfumature cromatiche, le quali sembrano coniugarsi o contrastarsi per un miracolo di gusto e di misura; come infine ogni membro della figurazione obbedisca strettamente a una legge superiore di comodità e convenienza costruttiva, incluso e atteggiato in un segno preciso e insieme vibrante e spazioso, di uno spontaneo sintetismo. …
Questo per i mezzi che potremmo definire, con termine teologico, di natura sufficiente, come quelli che ogni buon artista deve possedere, — secondo naturalmente la qualità particolare, specifica del proprio tempo.
In quanto a quelli d’ordine (per impiegare lo stesso linguaggio) efficace, che sono il complemento necessario degli altri e che costituiscono la scienza pittorica personale di ogni artista, consistevano poi nella sicurezza tecnica con la quale Fattori era in grado di condurre il lavoro verso la perfezione, a quello splendore supremo di cui Ingres diceva essere l’ambizione più alta di ogni eccellente maestro. …
Ora, Fattori apparteneva al numero di quei pochi che sono in possesso anche di quella maestria. E la miglior prova di ciò può aversi osservando come la maggior parte dei dipinti condotti da lui al massimo grado di finitezza che gli fosse concesso sia resa preziosa da una trattazione della materia che solo può esser comparata a quella dei migliori antichi;
come la forza del chiaroscuro sia sempre ottenuta con i modi più sobri e più nobili; come finalmente la sua tecnica sia di qualità tale da dar corpo alla visione del reale e non altro:
senza cioè nessun residuo di manierismi, convenzionalismi o materialità da praticante. Una tecnica, in sostanza, che è il tramite più sicuro tra la forma ordinaria della cosa intuitivamente compresa e rappresentata e la sua spiritualizzazione fantastica nell’opera; e perciò istrumento puro al servizio di un’attività geniale.
Per queste ragioni, la pittura di Fattori, oltre a tutte le altre, presenta anche questa qualità, che a una leggerezza, immediatezza e bonomia di visione unisce consistenza plastica sia per un impasto sostanzioso e forte, sia per lo smalto che ne risulta; carezzevole smalto di compiutezza che è come un riposo dolce e felice per l’occhio e lo spirito del riguardante, come è la testimonianza più chiara della volontà amorosa e della probità di un artista.
Credo inutile aggiungere che per gli stessi motivi sommati con quelli che sono andato via via esponendo prima, si può similmente concludere che Giovanni Fattori sembra meritar sempre meglio quell’attributo di grandezza, che pochi ormai gli rifiutano fra quanti amano e intendono sanamente le cose dell’arte. Come paesista, come pittori di ritratti, di scene militari e di vita campagnuola della nostra Toscana, egli rappresenta infatti l’esempio più ammirevole di creatore paesano, moderno nello stesso tempo che tradizionale …
E ch’egli sia questo scopritore eminente e fortunato si riconoscerebbe ancora meglio se gli italiani che presiedono ufficialmente alle faccende dell’arte si decidessero una volta a rinunziare a quell’assurdo costume di confinare le opere pregevoli dei contemporanei fra la stomachevole zavorra che ingombra le gallerie cosiddette di arte moderna, e adottando il sistema dei loro colleghi di altre nazioni, permettessero alle creazioni ottime come quelle di questo pitore, di entrare sen-z’altro a far parte del nostro vero patrimonio di bellezza, accanto ai prodotti della meglio arte dei secoli passati. Posto a confronto con i più grandi della nostra razza e di questa regione, si vedrebbe allora come Giovanni Fattori non sia un loro figlio degenere, ma anzi un degno perpetuatore delle loro virtù e del loro insegnamento. A un dipresso come fanno, nella sala francese del Louvre, un Corot, un Courbet, un Millet; come faranno domani Daumier, Degas, Cézanne e Renoir. A. soffici, Giovanni Fattori, “Valori plastici” 1921.
. I macchiaioli, e fra di essi soprattutto Fattori, mostrano con la massima chiarezza quella che è stata la vera vena poetica della pittura italiana dell’Ottocento: questo senso idillico, questa capacità di una immagine raccolta, questo saper cogliere l’impressione d’una natura assorta e tranquilla. L’altra grande corda della pittura europea, quel saper fermare la cosa nell’attimo, traguardarla in un attimo solo della sua vita, in un solo e irrepetibile incontro con la luce, battuta unica, estemporanea, di una commedia di vita gioiosa, questa corda non è stata della pittura italiana del secondo Ottocento, bisogna rassegnarcisi, ma della pittura francese contemporanea. G. castelfranco, Pittori italiani del secondo Ottocento, Roma 1952.
In quanto al Fattori, in mezzo agli artisti-critici Cecioni, Signorini, Costa, non si lascia andare quasi a teorizzare sull’arte; il dono della dialettica è talmente negato alla sua bell’anima, che nei rarissimi accenni finisce con il tradire se stesso. La lettera del 1872 al mercante d’arte Amodeo (nei suoi quadri “non manca la ricerca esatta del carattere di ogni soldato, sia la differenza che passa fra l’ufficiale superiore fino alla rozza figura del fantaccino …”, queste figure non si può dire che “manchino di movenza giusta, ne tutti gli accessori, sia armamenti, manchino di carattere e d’insieme …; quando un quadro non difetta ne d’insieme, ne d’espressione, ne di linea ed è dato conto fino alla più piccola fibbia”, egli lo crede “fatto con scrupolo e finito con intelligenza …”) potrebbe servire, semmai, a spiegare il peggior Fattori: non quello che tornava dinanzi alla natura con un senso di religiosa reverenza (“… le manifestazioni della natura sono immense …”) e alla sua contemplazione richiamava gli scolari degeneri; il Fattori che aveva superato le ideologie progressiste e umanitarie, alle quali doveva tuttavia tornare negli ultimi tempi (“… il verismo porta lo studio accurato della società presente, mostra le piaghe di cui è afflitta, inanderà alla posterità le nostre abitudini …”i e grazie alle quali L’erede del Patini diventava ai suoi occhi addirittura un “capo d’opera e di sentimento”. L Vitali lettere dei macchiaioli C. Torino 1953.
Una lingua, quella del Fattori, che potrà esser trovata breve, e forse anche monotona: ma. è tutta nuova, è sua, inedita e senza nessuna condivisione. E quando non ha residui o sovrastrutture è di una potenza poetica rara: cèrto aspra, inelegante, anche dura in qualche accento, raramente tranquilla o contemplativa, ma seria, severa, dolorosa o malinconica, soprattutto di un vigore nativo o di uno sgorgo vitale spoglio e certo, che porta l’osservatore che si abbandona nel pieno di una forza semplice e quasi immemore come quella della e della vita che lotta,, come sua legge. C. L. ragghianti, G. Fattori, “SeleArtt” 1953.
L’insegnamento di Fattori era tutto nella sua opera, non nelle sue parole, rare e umane, non premeditate ne distillate certo in teorie. La sua arte non cercava un collegamento dialettico con le correnti operanti nel suo tempo, poiché aveva compiuto a un tratto e risolutamente uno sforzo violento per ritrovare il contatto con la natura primigenia del fatto figurativo. E l’anticultura di Fattori aveva la sua giustificazione, non estensibile ad altri, nella potenza e nella riuscita di questo sforzo. Per lui, a un certo punto, tutta la vita prese il colore di una verità invariabile, fissa, in modo che meglio la bellezza potesse coincidere con lo stupore religioso che si prova davanti alle manifestazioni della natura. Questo era il suo realismo, il suo coraggio di guardare alla vita con occhio sereno, impietosito, privo di illusioni, incurante di consolazioni. A. parronchi, La visione realistica di Fattori, “L’Approdo letterario” 195 …
Non aspirava a ribellioni esterne, vistose: per questo, la sua formazione in conto dell’arte;’ dovette procedere nel solco stesso di quelle tante norme d’un tirocinio impreso con fiducia. Ne preconcetti suoi particolari di derivazione comunque formalizzata, ne una poetica propria su cui regolarsi, fuori di quella che lo guidava nella pratica come una tecnica spirituale. Quando si accostò ai Macchiaioli, dovette fare i suoi calcoli vagliandone il pro e il contro con scriminazione assolutamente disinteressata. Incamminatesi per la strada maestra, non pensava alla eventualità di svolte o traverse da potersi sviare. L’essenziale, per andare avanti, era di lavorare. Il reddito quotidiano, ne con grettezza, ne con sperpero. Cézanne al quale, come uomo non complicato, usuale, di sode spalle, di radi e calibrati pensieri, può Fattori, senza scandalo, avvicinarsi, scrivendo nel 1878 a Zola per informarne il comune amico Alexis, ammoniva che sul lavoro si fondano le imprese di commercio e le reputazioni artistiche. Postulato oggimai scaduto o manomesso; però, in allora, d’una validità concreta. Fattori, diversamente da Cézanne, quale consueto avviamento scolastico, principiava assai modestamente, ne in seguito gli avanzerà tempo per istruirsi meglio in quel senso. … D’altro Iato, in quella relativa solitudine, gli tornava meglio riportarsi continuamente dall’esterno all’intimo proprio, ragionarne con se stesso, a suo modo. Dinanzi a quel vero, ossia al Creato, a sua ingenuità era talmente pacata, sana e forte, che non gli proponeva sottigliezze e cavilli nel giovarsene come modello. In natura, qualora, tra il lato romantico (come poteva distinguerli Cecioni) e quello storico, gli bastava di tenersi preferibilmente a quest’ultimo: ma prima di decidersi per codesta “realtà pura e semplice” catechizzata dai compagni, nel prolungamento dell’attesa non si peritava d’assimilare ogni preferenza regionale.. che trovava adattarglisi. Si è accennato com’egli, in certe questioni, taciturno e quasi scontroso, lasciando discutere gli altri, i banditori del gruppo, allorché si preoccupavano e con quale avvedutezza, sulle ragioni intrinseche dell’arte e su quelle particolari dei loro principi, sembrasse diffidare di quella felice dotazione del loro talento, quasi con una istintiva rivalsa del suo parziale discapito. Ben più, di fronte a Diego Martelli, così fidato e sollecito attorno a lui, per quei suoi entusiasmi ricorrenti, non mancando di contrapporgli pari asseveranza di pensiero e di giudizio, suggerita dal proprio discernimento. Questo per sé: ai discepoli, nelle sue mansioni, diciamo, professionali (ch’egli doveva esplicare in sottordine, come altresì sovente nella vita) non pensò mai d’affacciare quesiti o escogitare sistemi, consigliando di seguire intatta la propria vocazione, sulla miglior traccia ch’egli col suo stesso esempio offriva loro. Ancora: a proposito della sua prima formazione, si volle, per determinate Circostanze, richiamarsi alla particolare attenzione prestata da Fattori a certi maestri del Quattrocento toscano, come d’altronde, in più della propria congenita predilezione, verso codesta epoca volgevano quelle dell’intero suo gruppo, ma non è da credere che tale applicazione dovesse troppo significare, nel caso di Fattori, oltre l’esercizio pratico che per riservata esigenza di studio poteva occorrergli. In quanto debba ognora rammemorarsi a suo riguardo, come qualsiasi bagaglio sussidiario, fuori dei suoi rapporti col dato naturale, gli tornasse incompatibile, anzi nulla più che un aggravio per il suo spedito cammino. Constatazione quanto mai ovvia nel suo conto generico, da collocarvi pure quel che si presume ascrivere a una ridotta sensibilità o magari esplicita sua renitenza per ciò che manifesta vasi allora nel mondo, ch’era poi la Francia, coll’ininterrotto succedersi e accavallarsi di movimenti artistici, episodi culturali, e via dicendo, senza voler riflettere quanto sia diverso lavorare sul proprio, e quanto sull’altrui, reclamandosi in questo caso doverosa abbondanza e varietà d’informazioni quando nell’altro, specie in tema di salde personalità, risponda tutt’altra occorrenza di repertorio.
Il quale appunto, nel caso Fattori, rivela così esplicitamente il proprio fondamento e le sue provvidenze; in quelle manifestazioni naturali che, a suo stesso dettato, s’illuminano e s’adombrano a confessare l’interiore vicenda, nonché in quelle sociali, dall’aspetto altrettanto mosso e cangevole: inesauste sorgenti d’ispirazione e di controllo, a cui Fattori attinse con scrupolo d’esclusiva sommissione. D. durbe’, Giovanni Fattori: Dipinti-disegni-acqueforti, Livorno 195
Se noi esaminiamo i quadri di Fattori … vediamo che la ‘macchia’ non sempre è usata, o è usata senza preoccupazioni e senza imposizioni. Il ‘macchiaiolismo’, diremo, per avvicinarlo a un altro movimento pittorico di quella stessa epoca, non ha gli stretti confini tecnici, le premesse categoriche e inderogabili del ‘divisionismo‘. Sottoscrivere al ‘divisionismo’ era convertirsi a una religione (e il linguaggio dei divisionisti era involto di misticismo e di simbolismo; poggiava sul premesse di luce morale e materiale) ; dipingere ‘macchiaiolo’, invece, era parlare secondo il sentimento, col vocabolario della migliore tradizione e della più onesta chiarità toscana. E Fattori non assunse mai il cipiglio, e non ebbe nemmeno l’autorità, di un caposcuola; parola che gli sarebbe pesata come la croce di cavaliere o il titolo di eccellenza. Buon maestro non fu a giudizio stesso dei suoi allievi: non suggeriva correzioni e tanto meno ne faceva sulla tela dell’allievo; si accontentava di dire ai ragazzi che gli parevano dotati di qualità naturali: “Rifà da capo”. Rifare, parola della pazienza e della incontentabilità. Tutta la fatica pittorica di Fattori è ispirata a questo imperativo. Fino all’ultimo giorno di vita studiò. Una infinità delle sue migliori è più apprezzate pitture erano, secondo lui, semplicemente ‘studii’: e si dimostrano appunto ricerche pure e semplici di espressione, variazioni di un tema, ‘Studii’ come quelli di Chopin e di Paganini, suggeriti dalla emozione di un momento e cristallizzati in una tecnica rapida: ma perfetta. La stessa povertà del materiale adoperato per quelle impressioni: semplici tavolette di legni esotici disarticolate dal fondo e dal coperchio delle scatole di sigari avana, trabucos, dimostra il poco conto e il concetto di ‘invendibilità’ che Fattori attribuiva a quelle assicelle. Egli le considerava tutt’al più come buone annotazioni che, forse, si sarebbero un giorno tramutate in ‘quadri’, e che donava agli amici, agli scolari, agli stessi inservienti dell’Accademia, che a loro volta ne facevano omaggio a collezionisti avveduti, dai quali erano ricompensati con le mance natalizie. Quando una delle tavolette pareva al Fattori così nutrita di verità e di arte, così nobile, da potersi tenere lungo tempo, senza troppo sfigurare, davanti agli occhi, la appiccicava con una puntina al cavalletto. E oggi alcune di quelle tavolette marcate dal semplice suggello dell’incontentabile autore sono nei musei e nelle collezioni private. (Ne mancano disonesti mercanti che falsificano quel suggello per far credere che Fattori le avesse predilette ).
Forse anche da quella sua abitudine derivò lo scolastico precetto macchiaiolo che non si deve superare la “dimensione dei quindici centimetri, quella dimensione che assume il vero quando si guarda a una certa distanza : a Quella distanza cioè in cui le parti della scena si vedono per masse e non per dettaglio”. R. calzini, 12 Opere di Giovanni Fattori nella raccolta Stramezzi, Milano 1955.
… Così sorge fra l’altro, nel ’73, quel capolavoro che è la tavoletta raffigurante i Barocci romani [Firenze, Galleria d’arte Moderna], dove quattro cavalli meriggiano sulla polvere della strada assolata. È un contrappunto di macchie bianche su toni scuri, ma questo colorismo di macchia non esclude, nei sintetici scorci, un sottinteso disegnativo-prospettico e, nella sentita scansione ritmica, un respiro compositivo monumentale, una vastità quasi sconfinata di spazio, sottolineata dall’infinito prolungarsi del muro nella luce accecante. Sorge così dal motivo particolare un sentimento universale di tristezza e noia, nel pigro sospendersi della vita all’afa meridiana. R. salvini, Lineamenti di storia dell’arte, Firenze 195.
Prendiamo del Fattori il famoso In vedetta (chiamato anche la Parete bianca, 1870 e., Valdagno, collezione Marzotto) : è un problema di spazio prospettico all’opposto della resa esistenziale immediata, che i macchiaioli, a cominciare dal Fattori, non sono pittori all’aperto, nemmeno quando piantano il seggiolino in campagna; o almeno non lo sono certamente nel senso degli impressionisti, perché non si dimenticano dello studio, vogliamo dire della composizione elaborata nell’atelier, e non giungono mai allo spazio atmosferico (si servano della macchia violenta, fortemente insistita e chiaroscurata come nei primi tempi sotto l’influenza del Decamps e del Troyon, ovvero riducano la macchia al tono, non immemori del valore della linea, con effetti di intarsio cromatico, dai contorni squadrati, sfaccettati) ; anzi solidificano l’immagine nel rigore di una prospettiva tridimensionale tipicamente fiorentina. Se l’attimo è la tensione degli impressionisti, la durata è l’insegna dei macchiaioli: ciò che non implica necessariamente eguale valore poetico nei secondi. La stessa luce, nel piccolo dipinto fattoriano citato ad esempio, ha un peso, una densità, che verrebbe da definire metafisica; ogni elemento compositivo concorre a suggerire la profondità: i tre cavalleggeri commentano, misurano il valore delle distanze spaziali in accordo con le righe perentorie della parete e della strada, e sono profilati con fermezza incisiva di linea (il Fattori fu un ottimo grafico : si vedano certe sue acqueforti che ricordano — specie quella famosa dei Buoi bianchi — la xilografia del Quattrocento, come osserva il Lavagnino) ; e dal loro immobile ‘ piazzarsi nello spazio cubico, sotto un cielo “d’altro pianeta”, spicca quel senso di allerta, di aspettazione di un prossimo evento, che giustifica meglio il titolo In vedetta, che non l’altro, la Parete bianca (o il Muro bianco}, che calca troppo la mano sull’apparenza superficiale del dipinto, sul fatto della ‘macchia’, che qui si trova semplicemente nella condizione subordinata di un mezzo tecnico atto ad esprimere il sentimento.
E che il Fattori non fosse un pittore puro, neanche suo malgrado, lo testimonia il Riposo di Brera, davanti al quale non sono pochi a torcere un po’ il muso come ad un’impresa che ecceda le possibilità dell’autore, preferendogli le indubbiamente preziose e più ‘moderne’ tavolette. Eppure il Riposo ci sembra un bei quadro, di sicura unità stilistica; l’asse del carro e la stanga sul terreno, parallela alla riga della spiaggia, realizzano la profondità col concorso di altri tagli esatti di piani, come la linea dell’orizzonte, il giogo, il profilo alto dei buoi; tra il bifolco, l’aratro e la pertica obliqua in terra si determina un angolo di larga apertura, e l’intera composizione si risolverebbe agevolmente in uno schema geometrico di perfette rispondenze e armonie: lo diciamo agli appassionati della critica formalistica, perché, è evidente, il valore estetico del dipinto non risiede nella sua partitura matematica come non risiede nella ‘macchia’, ma nel sentimento intenso di quiete agreste che qui, come nelle migliori pagine carducciane, si è fatto immagine. F. bEllonzi, I macchiaioli a palazzo Strozzi, Firenze 1969.
Bibliografia:
-
“Antologia dei Macchiaioli, la trasformazione sociale e artistica nella Toscana di metà 800”, PT. Panconi, isa, 1999.
-
“I Macchiaioli, dipinti inediti o poco conosciuti”, T. Panconi, Pisa, 1999.
-
“Il Nuovo dopo la Macchia, origini e affermazione del Naturalismo toscano”, T. Panconi, Pisa, 2009.
-
“Caffè Michelangiolo”, Piero Bargellini, Vallecchi editore, Firenze, 1944.