Citazioni e critica su Simone Martini

 Citazioni e critica su Simone Martini (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

Pagine correlate all’artista: Biografia e vita artistica – Le opere di Simone Martini – La sua pittura – Il periodo artistico.

Il pensiero critico degli studiosi di Storia dell’arte su Simone Martini:

L’arte di Simone Martini ci parla come da un mondo esotico. Le immaginazioni di vita ch’essa realizzò gemmate di colore, senza sottintesi di dramma contenuto e senza dramma in atto, sono lontane dalla realtà ch’è in noi.

La sua religiosità, che fa pensare ad una vaga nostalgia di gente esiliata sulla terra, non tocca il nostro scetticismo affaticato; e la sua forma ‘piana, nata da definizioni lineari di zone cromatiche preziosamente inflesse, non risponde — come la forma di Giotto, squadrata con risalto di massa nella dura selce — alla nostra necessità di concretezza acerba. Chi va nel mondo delle sue figure immote, astratte in fissità di sogno o un poco trasognate nella vaghezza delle loro azioni, non è dissimile dal navigante approdato a un’isola di fiaba, che ne percorre i sentieri ad uno ad uno, avvinto da sensazioni di delicata sottigliezza, e non torna sui propri passi per affondare la sua barca all’ancoraggio. Ma v’è in quest’arte una particolare qualità di elevatezza, una grazia sognata che da lo stesso lume a visioni celesti e immagini terrene, l’una e l’altra legate alle soluzioni estetiche di un intellettualismo sottile e vigilante. Ed è forse in esse la ragione del fascino col quale Simone Martini ci convince in ore isolate e distanziate della nostra vita, ma con tale intensità talvolta, da farci quasi dubitare di tutto ciò ch’è alieno ai suoi postulati di sentimento ed alla sua espressione. ….

Quale tratto di vicinanza si potrà mai fissare tra Simone e Giotto? Sarebbe necessaria una simultanea aderenza critica all’opera di questi due pittori, al loro sentimento dell’arte ed alle loro visioni della vita, per valutare la qualità di lontananza che li fa diversi. Ma poiché vado occupandomi del primo su strada rettilinea e non mi conviene di svoltare in campo fiorentino, mi fermerò soltanto a rievocare l’urto che la nostra sensibilità sopporta, quando dalla contemplazione dell’opera di Giotto passiamo con immediatezza alla visione agevole della pittura di Simone. Se, tra gli affreschi di Giotto nella Basilica di Assisi, fissiamo la nostra mente sulla scena della Predizione di morte al Cavaliere di Celano, e sull’altra delle Esequie del Santo, col sublime slancio di Santa Chiara appassionata sulla piccola salma supina ed appiattita nella rozza veste; e se poi discendiamo senza alcun indugio alla Basilica inferiore, per darci alla penombra colorita della cappella di Simone, sentiremo la momentanea infelicità che un’espressione dell’arte ci può dare, se siamo preventivamente convinti della sua bellezza. Bisognerà smemorarci dell’umana passione che Giotto aveva fissata nella sua selce etrusca, dimenticare che la sostanza della vita è dramma in continuo divenire, perché Simone ci convinca del suo colorismo impreziosito, e dei suoi cautelosi accostamenti ad aspetti esteriori della vita traverso le forme d’un misticismo mondanamente ornato. Pervenuti a quella condizione di smemoratezza necessaria, avvinti dal linguaggio accogliente di Simone, possiamo chiederci da quale posizione spirituale, antica e inconsapevolmente rivissuta, poté nascere il tipo di quest’arte. col suo decorativismo estremamente raffinato e le sue naturalistiche tendenze. Per rispondere a noi stessi, dovremo risalire a quei felici movimenti di pensiero e vita nell’età romanica dell’arte. allorché l’uomo, affermando la pienezza della sua entità morale, del suo valore spirituale sulla terra, manifestava una rinnovata coscienza del significato che la sua fisica persona poteva assumere come materia d’arte, con le circostanze e i modi della sua vita esterna. In Italia la secolare tradizione limona aveva troppo intimamente vincolata l’arte della pittura alla poesia del Cristianesimo, perché gli artisti e i committenti laici potessero immaginarla distaccata dai santi e dalle storie sacre, se non in qualche caso d’eccezione e di pubblico interesse, come fu quello del Ritratto equestre di Guidoriccio da Fogliano. Ma nella crociera della Basilica di Assisi, la bellissima Santa Chiara ha dignità sovrana; ci riappare, con diverso volto ma con eguale aspetto, sotto la grande arcata della cappella di San Martino, prossima a Santa Caterina e a Santa Elisabetta d’Ungheria, principesse pensose, che ostentano il plasticismo lineare delle loro vesti, come se muovessero i loro passi ritmati in una solennità di cerimonia araldica. Una compiaciuta aderenza ad esteriorità di vita principesca, un vago senso di lusso cortigiano, sottilmente s’insinua nella pittura delle immagini sacre di Simone, facendo inseparabile la santità femminea dal pregio delle stoffe, inseparabile la dignità sacerdotale da un’ostentata magnificenza di paramenti sacri. la civiltà cavalleresca e la civiltà chiesastica abbinate, con l’affascinante ricchezza che la vita esteriore ne potea dedurre, avevano esaltato il colorismo e il gusto ornativo di Simone, adducendoli a una gemmata rievocazione di lussi bizantini. E l’artista sottile, dedicando preziosità di stoffe e d’ornamenti alle sue immagini nimbate, era rimasto col suo spirito sospeso in un inquietante compromesso di spiritualità severa e di piacevolezza, di misticismo e di mondanità regale. Ma Giotto, preoccupato di puri valori umani, fu pittore di “povere persone, che non portavano oro sulle loro vesti”.   A. de rinaldis, Simone Martini, 1936

Infine io devo confessare che, a malgrado di questo fascino di Simone, ben oltre Siena larghissimo, e per quante possano essere le seduzioni della sua arte, le maggiori tempre artistiche dei Senesi, dopo Duccio, mi sembrano quelle dei due Lorenzetti ed in ispecie di Ambrogio; e più mi piacciono la dura malinconia di Pietro o la maschia letizia di Ambrogio, il solo tra i senesi di statura da potersi misurare se non vittoriosamente, almeno degnamente, con Giotto. …

Errerebbe chi dalla celebrazione che di Simone fece il Petrarca, nei due famosi sonetti, volesse proporre un parallelo tra l’arte del poeta e quella del pittore. Che la lucida nitidezza della forma petrarchesca è frutto di una lenta e coscientissima e incontentabile elaborazione, di sapore prettamente classico, come è testimoniato dal documento dei suoi manoscritti; mentre la straordinaria ricchezza, la inaudita preziosità del linguaggio martiniano – e se mai il parallelo letterario sarebbe col D’Annunzio — sono assolutamente primordiali e spontanee. Il virtuosismo è sincerissimo : è facilità. La scrittura di Simone è anzi corsiva. Ed è in ciò la sua virtù; ma fors’anche il suo peccato. Che quella potenza di liricizzare ugualmente ogni cosa, ha come controparte una certa mancanza di messa a fuoco; la suprema limpidezza e l’intensa espressività formale di ogni e ciascun particolare, finisce per risolversi in una opacità compositiva dell’assieme. L’eccesso di varietà diventa uniformità.    L. Coletti / primitivi: i senesi e i Giotteschi, 1946

Compì egli quella sublimazione del visibile che il Petrarca pregiò squisitamente in lui quando ne celebrò il ritratto di madonna Laura, la quale pareva presente al poeta in quel ritratto e in atto di ascoltarlo, ma in aspetto tale che il pittore poteva averla veduta così soltanto nell’Idea divina. Tra il sensibile e l’astratto Simone Martini aveva trovato in arte una sua sfera che tocca largamente l’accidentale ma lo purifica, s’avvicina al trascendente ma non vi si perde : e ne trasse dei capolavori.   P. toesca, II Trecento, 1951

Non ci risulta che Duccio abbia mai praticato l’affresco; e questo forse spiega perché, mentre egli era ancor vivo e onusto di incarichi e di gloria non meno che di debiti, e mentre ancor le strade di Siena echeggiavano degli squilli delle chiarine che avevano festeggiato il memorabile trionfo della sua Maestà, la più importante ed onorifica impresa di pittura che fosse stata fino ad allora deliberata dallo Stato non venisse affidata a lui. Si trattava infatti di dipingere un’altra, monumentale Maestà, ma a fresco, sulla parete d’onore della maggior sala del Palazzo dei Signori Nove, cioè del Palazzo del Governo ; e il pittore prescelto fu Simone Martini, che, come attesta un’iscrizione sottostante l’affresco, dava compiuta l’opera nel giugno 1315. Prima di quella data nessun documento, nessun dipinto attribuibile ci soccorre ad illuminarci sui titoli che Simone dovette pur avere per meritare simile incarico. Niente, all’infuori del sovrano magistero e del genio che risplendono nell’opera eccelsa, testimonianza di una personalità artistica ormai già compiutamente determinata ed originale anche nei confronti di Duccio, che nella sua Maestà aveva instaurato, per quel tema così caro alla religiosità e al sentimento civico dei senesi, un modello e una tradizione iconografica così alti ed autorevoli da far sembrar temerario il discostarsene dopo così breve tempo. E tuttavia l’interpretazione che ne diede Simone a meno di un lustro da quando il capolavoro duccesco era stato solennemente collocato in Duomo non potrebbe apparirci più diversa, sia per quanto riguarda i mezzi espressivi, sia per lo stesso significato spirituale e religioso che, di conseguenza, viene ad assumere il soggetto. L’immobile, serrata falange degli adoranti, che formava una muta barriera di estatici sguardi intorno al massiccio trono della Madonna duccesca si è qui disserrata per dar luogo ad una varia ed ariosa adunata di gente liberamente accorsa a far corona alla Vergine; e questa siede su di un fragile trono sottilmente traforato alla gotica, che non la isola dal resto della composizione come l’abside marmorea nella pala di Duccio; che anzi, tutti gli astanti La possono scorgere, ed essa solo di poco li sovrasta nelle dimensioni; di quel tanto che appena basti a dare un accento di regalità alla sua pensosa dolcezza. L’andamento mosso e ondeggiante della serafica schiera non sopporta costrizioni o inquadrature rigidamente architettoniche : al di sopra delle teste infatti, innalzato su esili pennoni in un vasto spazio di cielo che occupa quasi la metà del dipinto, fluttua coi suoi nastri al vento un baldacchino di seta simile a quelli usati nelle processioni. E la scena forse sembra rievocare l’improvviso arresto di una processione all’aperto … Il senso della mistica visione di Duccio si è fatto dunque umanamente più accessibile, nella concreta celebrazione di un avvenimento solennemente rituale, sì, ma non privo anche di qualche grazia sottilmente profana. Infatti quello che più colpisce è la straordinaria eleganza delle figure, il loro ritmico e sciolto atteggiarsi, che mette in rilievo la musicale continuità del disegno; anzi, si può dire che sia proprio questa esigenza di sviluppare con armoniosa fluidità i profili e i contorni a determinare l’intima struttura dei corpi; essi sembrano privi di peso, e nel loro assieparsi intorno al trono della Vergine ondeggiano lievemente come steli sfiorati da un brivido di vento.

È quindi soprattutto il gusto della linea – congiunto, come già in Duccio, ma con ancor maggior delicatezza di impasti, alla rara elezione del colore – che solleva le creazioni martiniane al disopra di ogni verosimiglianza realistica, nel clima della più rigorosa e cristallina speculazione fantastica. Un gusto che, maturatesi sulle più schiette ed intense espressioni del figurativismo gotico, diviene in Simone Martini non solo elemento fondamentale di linguaggio, ma fonte primaria dell’ispirazione.

A differenza però dei rabeschi in piano dei miniatori nordici, la linea di Simone non è mai disgiunta da una certa funzione plastica, non è mai astrattamente decorativa, e le forme che essa circoscrive appaiono, pur nella soffice sottigliezza dei trapassi chiaroscurali e nella tenera luminosità delle intonazioni cromatiche, assai robustamente e incisivamente modellate. …

Sembra tuttavia un controsenso — e non lo è — che l’arte di Simone attinga vertici di così sottile e quasi rarefatta liricità senza venir meno ad un pungente, spregiudicato realismo : l’opera del più gentile e raffinato vagheggiatore di angelicale bellezze di tutta la pittura del Trecento è anche quella più ricca di crude notazioni realistiche : e le storie di Assisi, coi loro rozzi tipi di soldati (si veda quello che paga il salario davanti alla tenda dell’Imperatore), coi loro chierici e coi loro fratacchioni adiposi e vocianti ne sono un eloquente esempio. Sembra quasi che l’artista si sia compiaciuto, o abbia ritenuto necessario, di richiamarci di quando in quando alla più bruta e materiale realtà, per far meglio risaltare l’elezione spirituale dei suoi eroi… E anche da questo gusto per il contrasto, il racconto acquista la colorita vivacità, epica e popolaresca, di una “chanson de geste” :

quando addirittura non si stilizza in una stupefatta contemplazione quasi impregnata di una sorta di metafisica magia. Il che avviene nel celebre affresco di Guido Riccio da Fogliano, dove 1′” onorevole capitano della guerra” è rappresentato mentre cavalca nella solitudine delle “crete”, tra palizzate, trincero ed altri apprestamenti bellici. Anche qui le fattezze del personaggio sono volgari e sgraziate, tozza è la sua corporatura; e pure ogni materialità appare riscattata dall’intimo accordo delle qua­lità formali coi favolosi aspetti del mondo circostante. Dimenti­chiamo cioè il soldataccio di ventura per ammirare come la preziosa, elegantissima pezzatura della giornèa ricamata riecheggi l’araldico gioco dei vessilli e dei palvesi bianco-neri, e i cristallini, geometrici volumi delle rigate tende e delle torri : come i curvi profili del gruppo equestre s’adeguino a quelli dei dorsi delle deserte colline : come le fluide modulazioni dell’orlo della gualdrappa del destriere riprendano ed intensifichino i sinuosi percorsi delle palizzate. Soltanto un artista grandissimo poteva, pur nella più rigorosa osservanza dei dati storici e documentar! (nella parte destra dell’affresco è raffigurato persino il “battifolle” costruito da Lando di Pietro, e forse anche il cavallo è quello “di pelo bianco, con istella in fronte col mostaccio bianco ” che Guido Riccio perse in combattimento) e senza un’ombra di retorica o di cortigianeria trasfigurare ed eternare nei più puri domini della fantasia una modestissima operazione repressiva, quale fu in realtà la conquista dei castelli di Montemassi e Sassoforte che si erano ribellati alla Repubblica senese.    E. carli, La pittura senile, 1955.

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