Citazioni e critica alla pittura di Duccio di Buoninsegna (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)
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Come hanno parlato di Duccio di Boninsegna gli studiosi di Storia dell’arte
C. H. Weigelt, La pittura senese del trecento, 1930
Lo stile di Duccio si ispira ai suoi predecessori del decimoterzo secolo; ma naturalmente egli si serve della tradizione solo per trame, come ogni grande artista, materia per nuove creazioni.
[…] Più che all’azione esteriore, è agli atteggiamenti spirituali, alle movenze in genere, che Duccio sa dare forza d’espressione e vivacità. Ne abbiamo continui esempi in tutti i suoi quadri, anche là dove il gesto non serve ad esprimere che una banale azione di ogni giorno […]. Duccio sa, come nessun altro, immedesimarsi nella vita e nell’animo dei suoi personaggi: se gli manca forse la veemenza della passione, vi supplisce con la soavità e la profondità del sentimento.
Giotto, energico e alle volte anche un po’ massiccio, ricerca sempre l’eroico; Duccio, più delicato, si attiene a ciò che è semplicemente umano. Giotto è pur sempre il figlio di un contadino toscano, ma Duccio ci appare piuttosto un cittadino raffinato, che l’indole aristocratica e colta tiene lontano dal chiasso e da ogni forma di esibizione. I gruppi dei vari personaggi sono disposti ancora in modo antiquato nei suoi quadri, ma quello che c’è di troppo simmetrico è temperato dalla vivacità d’ogni figura, così che in questa folla si riflettono, come in uno specchio sfaccettato, tutte le vicende dell’azione.
Luigi Coletti, I Primitivi, II, 1946
Quegli elementi di classicismo che, derivanti forse da Pisa, abbiamo rilevati in opere del Dugento senese, come il paliotto di San Pietro e quello di San Giovanni, e talora nello stesso Guido, trovano il loro armonico e pieno sviluppo nel gusto del maestro che si suole designare come il “fondatore della scuola senese”: designazione grossolana, ma in sostanza esatta; in quanto pel quasi un secolo, con esempio forse unico, dura la fedeltà dei senesi a molti modi e formule, specialmente iconografiche, di questo patriarca della loro pittura. Ma codesto classicismo è il punto d’arrivo della sua arte, e gli permetterà di dominare mirabilmente, nei suoi frutti più maturi, una straordinaria ricchezza di cultura […]
La cultura figurativa dì Duccio ci appare quindi eccezionalmente ricca e complessa. Senza tuttavia che egli ne sia mai soverchiato; ed è in ciò la sua grandezza. La sua fantasia si compiace nel lento assaporamento e nella assimilazione di questi così varii e molteplici elementi; onde ne risulta un’arte me ditatissima per entro il filtro di una sempre vigile riflessione.
È dunque di un vero e proprio classicismo di Duccio, in ispecie per gli ultimi raggiungimenti, che dobbiamo parlare. Classicismo non tanto esteriore per l’uso di quei motivi antiquarii, quanto come processo intcriore formativo dell’immagine […]. Classicismo anche di tono sentimentale, nella larga lenta solenne dignità umana da “nobile castello” […].
Cesare Brandi, Carmine o Della pittura, 1947
[…] La cultura che un’opera come la Madonna di Crevole suggerisce è indizio intanto di una cerchia assai ristretta e di una personalità foltissima. È caratteristico del genio di cogliere anche da esemplari tralignati e scadenti il succo stesso di una figuratività : così doveva accadere nel Quattrocento per Donatelle e il Brunelleschi posti di fronte ai casuali rottami di Roma. Così avviene a Duccio, che dalle modeste consuetudini di Guido [da Siena] sa risalire alla ragione stessa che fa di qualsiasi lavoro esteriormente applicato all’immagine bizantina una calligrafia e un ricamo, ma non una nuova immagine.
In Duccio l’oggetto si costituisce restituendo alla privatività dell’immagine bizantina un intelligibile assai meno schematico, e cioè arrestando il processo privativo e risalendo la sostanza conoscitiva dell’oggetto. In questo senso Duccio non preleva direttamente dalla natura : l’immagine bizantina, o quella sua discendenza collaterale che compariva in Guido, serve ancora di tramite all’artista, che sente in sé rigonfiarsi le consunte sagome d’una figuratività più complessa. Ma con ciò si è interrotto il moto di definizione interno all’immagine, e anche un elemento figurativo che se ne poteva decantare, come la linea, non rappresenta più un modo di porgere, un’intonazione suadente, che appartenga alla esternila della formulazione.
Altro di Cesare Brandi su Duccio
L’oggetto, costituendosi attraverso il diafano diaframma dell’immagine bizantina, acquista in ogni nuovo riporto conoscibile un nuovo elemento figurativo, e se allora, a trarlo in luce, può sovvenire anche uno stesso mezzo che prima si evolveva nell’ambito prefisso dell’immagine, questo non rimarrà più come la testimonianza di una manualità, sia pure raffinata e attenta. Avviene così che la linea rusticana di Guido, che pure aveva già lasciato un solco anche nel fiorentino Coppo di Marcovaldo, nella Madonna di Crevole si addolcisca e si plasmi su un oggetto che è come rinvenuto e risollevato dalla stretta schematicità conoscitiva che già il contorno, a volte quasi geometrico, puntualizzava sul piano.
[…] Non è ne un’inferiorità, ne una superiorità di Duccio, questo, di non esprimere la forma secondo una intuizione plastica unitaria come è di Giotto e sarà di Masaccio: è il suo modo di costituirsi e di formulare l’immagine. Ma averne intuito con tale insuperabile misura l’essenza, da al suo stile una purezza apollinea.
Altro ancora di Cesare Brandi
L’osservazione che sosta sulle singole teste [a proposito della Maestà] non frantuma allora un insieme: e si rende conto che in quell’aria quasi ellenica, nella compostezza sovrana eppure umana, non si cerca una bellezza piacevole, poiché la bellezza appena propostasi a oggetto fu ritirata, o per così dire frenata, dalla negatività con cui l’immagine si costituiva, depurandosi. spezzando per sempre un nesso vivo con l’esistente.
È in quella calma di catarsi, in quell’allontanamento dalla realtà quotidiana, che la bellezza si denuda dalla contingenza dei sensi: donde una così diversa eppure lampante classicità, inafferrabile a un gretto formalismo. Questa, la solitaria altezza di Buccio.
Pietro Toesca, II Trecento, 1951
[…] Cimabue aveva costituito la propria arte rinvigorendo con l’energico disegno e con l’appassionato animo il tono drammatico, e allora più attuale, della pittura bizantina. Più affine al Cavallini, Duccio fu invece attratto da altri aspetti dell’arte bizantina, che non avevano lasciato indifferente lo stesso Cimabue e lo avevano portato al classicismo degli angeli delle sue Maestà.
Vi era stata, e andava esaurendosi, nella pittura bizantina una tradizione ‘aulica’ classicamente misurata, in cui il ritegno degli atti e dell’espressione era congiunto a un modo di vedere pacato e insistente, ben lontano dal rinunciare al senso del rilievo e dello spazio […].
Mediante le miniature di codici ‘aulici’, anche senza aver veduto pitture murali e mosaici come quelli di Dafni, Duccio poté conoscere i modi classicheggianti dell’arte bizantina; e da questi dovette muovere. Diede maggior valore al rilievo e alla profondità; ma non per questo si accostò a Giotto: da Giotto Io divideva il suo mondo inferiore nel quale emozioni e immaginativa erano limitate dalle tradizioni precedenti, ben altrimenti che nel fiorentino, e dirette ancora da un sentimento religioso chiuso all’ardente umanità che Giotto invece esaltava.
La sua natura non lo portava al profondo degli animi e delle cose; aveva un senso di nobiltà atto ad apprezzare più la raffinatezza che l’emozione immediata e ingenua, com’era appunto Io stile bizantino aulico. Da questo aveva avuto la prima iniziazione ma senza che fosse diminuita la sua virtù poetica di dar freschezza a quanto ne apprendeva e di trasfigurarlo; ne era stato avviato a trovare un proprio temperamento tra forma e colore che fu una delle qualità maggiori della sua arte.