Citazioni e critica su Giovanni Bellini (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore) – Bibliografia
Pagine correlate: Le opere dell’artista – Elenco delle opere – Il periodo artistico – La critica degli storici dal 1550 – La critica (pdf) dalle Vite di Giorgio Vasari – Biografia e vita artistica
Quello che ha detto la critica ufficiale della Storia dell’arte di Giovanni Bellini, detto il Giambellino
Luigi Coletti, Pittura veneta del Quattrocento, 1953
… naturalmente, non si vuoi negare … l’efficacia di Antonello e sull’ambiente veneziano in genere e su Giambellino in ispecie. Solo che essa è stata negativa. Vale a dire che essa ha deviato e ritardato il processo evolutivo della pittura veneziana nel senso della integralità pittorica, alla quale l’aveva già gloriosamente avviata Giambellino colle pale di Pesare, di S. Zanipolo, di S. Giobbe. Questa opinione che sconcerta forse quella corrente su que.sti fatti, ma della quale sono fermamente convinto, si basa oltreché sulla ‘precedenza’ di Giambellino … su altri fatti inoppugnabili e sulle deduzioni che inevitabilmente ne conseguono.
Rodolfo Pallucchini, Giovanni Bellini, 1959.
Mantegna e Giorgione sono i due poli tra i quali andò sviluppandosi il gusto di Giovanni Bellini. Nel Mantegna il veneziano vide costituita in modo preciso la visione di spazio plastico ereditata dai toscani, e riformata in senso prospettico con un rigore perfino eccessivo. Il Bellini addolcì tale visione, umanizzandola nella liricità del suo colore. Spazio e tempo in Bellini s’identificano nella luce: una luce reale, che il suo colore emana, districandosi da ogni implicazione astratta di forma. Il colorismo del Bellini preparò la strada a Giorgione: come, a sua volta, il tonalismo giorgionesco fecondò il gusto del vecchio Bellini.
Terisio Pignatti, Pittura veneziana del Quattrocento, 1959.
… presto sarà evidente che l’esperienza padovana per il Bellini non fu che un mezzo, un passo per procedere oltre. Dell’amore archeologico e tormentoso del Mantegna per la materia — pietra o metallo che fosse, oro o smalti preziosi — nulla è rimasto al Bellini. Le stesse tipologie donatelliane si stempe.rano subito in una armonia più addolcita, e soprattutto è già avvertibile un uso diverso del colore. Mentre in Mantegna questo era fin dall’inizio, e poi rimase sempre, una specie di ‘sovrastruttura’, qui nel veneziano il colore è l’impegno più forte, che condiziona e costruisce la sua poesia. Non per nulla Giovanni era il figlio di una città dove la tradizione cromatica era sempre stata al centro degli interessi pittorici, come un fiume grandioso e lento, ma sempre ricco e costante.
Basterà ricordare la Pietà del Correr, per avvertire la melo.dia che dal grigio violetto si stinge negli avori e nei bruni più soavi, fino a spegnersi nelle sfumature del cielo. C’è l’intenzione di esprimere con quelle variazioni tonali una patetica religiosità;
c’è soprattutto nello scolorarsi delle carni livide del Cristo morto una trasposizione di sentimento umano in immagine, che caratterizza la personalità di Giovanni. Già ora la lezione del Mantegna può dirsi superata.
Giuseppe Fiocco, Giovanni Bellini, 1960.
L’arte di Giambellino, tutta penetrata di candore religioso, di serenità e gentilezza d’animo, sembra rappresentare quell’istante privilegiato d’equilibrio tra divino e umano che è il momento ancora aurorale e cristiano del Rinascimento. La lunga operosità, quasi immune, come per uno stato di grazia, da ogni inquietudine e da ogni turbamento, di questo artista, forse il più completo con Raffaello e Tiziano che l’arte italiana abbia posseduto, pare condurre il gracile e composto ritmo bizantino al classicismo razionale, spaziale, e corporeo del Rinascimento, penetrandoli in una calda atmosfera d’umana dolcezza, il cui segreto sta nel colore, sentito nella luce dorata d’un giorno divinamente terrestre.
Ermanno Arslan, Studi belliniani, in ‘Bollettino d’Arte”, 1962.
Da quando … uscì il libro del Gronau al 1949, anno della
mostra dedicata, a Venezia, al Bellini, l’opera del grande veneziano si ampliò di sempre nuove attribuzioni e non guadagnò certo di chiarezza, ne di coerenza.
La mostra stessa anzi, come tante altre mostre del secondo dopoguerra, documentò le tappe successive di una vicenda durata circa vent’anni e denunciò il gioco arrischiato di una critica che aveva, forse, colmato, con qualche disinvoltura, le lacune esistenti nel vasto corpus belliniano adducendo nuove opere, non proprio intimamente legate a quelle che precedevano o seguivano.
Dove vien fatto di osservare che proprio la grande diversità di atteggiamenti assunta dal pittore, sembrò autorizzare gli studiosi a procedere in modo analogo, integrando l’opera del Bellini con dipinti che (come quelli proposti per gli inizi dell’artista) non offrono talora alcun diretto appiglio con quelli che seguono; ma recano solo indizi che conducono, a ritroso nel tempo, verso un’area, molto generica, di cultura, sulla quale poterono per avventura, ma solo in via del tutto ipotetica, fondarsi le prime opere del pittore e non già, come avrebbe richiesto un sano metodo critico, verso almeno un’opera di sicura scrizione e datazione. Il che è veramente un po’ poco.
Salvatore Bottari, Tutta la Pittura di Giovanni Bellini..
Antonello attraverso l’esperienza belliniana torna a stringere la sua forma nella serrata architettura della pala di San Gassiano o del San Sebastiano di Dresda, mentre il Bellini, attraverso l’esperienza antonelliana, può liberare la conquistata struttura spaziale da ogni sottinteso geometrico (il limite razionale, di cui si diceva) per quella assoluta spazialità cromatica sulla quale s’accampa, con il suo, il paesaggio moderno.
Le tarsie coloristiche si convertono in tal modo in praterie cromatiche aperte ad infinitum contro la magica sospensione dei cieli che riempiono delle loro luci, nel variare delle ore e delle stagioni, le giornate delle valli romite e silenziose, abitate dalla vaga bellezza dei suoi sogni
Rodolfo PALLUCCHINI, L’arte di Giovanni Bellini, in “Umanesimo europeo e Umanesimo veneziano”, 1964
Una grazia tra classica e bizantina amora sempre nei suoi contesti pittorici, trasformando in senso rinascimentale la religio cristiana. Non per nulla l’acuto Boschini lo aveva avvicinato a Raffaello. Pochi artisti ebbero la responsabilità di trasformare il corso di una tradizione come fece il Bellini. Non fu un rivoluzionario come Masaccio o Caravaggio: ma la sua azione non fu meno stimolatrice per il rinnovamento del gusto veneziano.
Accettando la cultura rinascimentale toscana, secondo le premesse mantegnesche, e quindi quelle pierfranceschiane, il Bellini non rinnegò affatto la tradizione veneziana, ma anzi la potenziò in una nuova struttura linguistica, cioè in quel linguaggio tonale che fu basilare per l’avvio alla pittura moderna.
Quella dialettica fra innovazione e conservazione, che è alla base della storia di Venezia, caratterizza anche il percorso dell’arte del Bellini. Mentre egli conserva cioè quanto di più originale e vivo fluiva nella tradizione veneziana, la visione del colore d’oriente e la spiritualità bizantina, egli le imprime una nuova dimensione, quella del Rinascimento.
In questo senso l’umanesimo veneto ha in Giovanni Bellini il suo più alto rappresentante.
Maurizio Bonicatti, Aspetti dell’umanesimo nella pittura veneta dal 1455 al 1515, 1964
… Dire anche che il Bellini, nel corso del primo decennio del secolo, mentre nella pittura veneta è in espansione il movimento giorgionesco, abbia sviluppato i propri modi espressivi (dalla Madonna del prato in poi) conformemente al giorgionismo, quasi per un’identità poetica, sarebbe del tutto improprio.
A parte gli scambi di natura formale, riteniamo di poter concludere che nella serie di opere comprese fra la Madonna di Londra e quella Sannazzari, i problemi artistici comuni a Giorgione e Giambellino dipendano da un comune archetipo di cultura (che è poi il medesimo cui appartiene la formazione umanistica dei committenti.
MEISS Millard Ales Rojec, Giovanni Bellini’s St. Francis in the Frick Collection, 1964
Non è soltanto un nuovo solvente che produce il colore morbido della pittura del Bellini. In molti punti, e particolarmente nelle rocce, egli distese le velature d’ombra e il verde della vegetazione sopra una campitura di blu-verde leggero. In precedenza, le ombre erano sempre state preparate con colori scuri, e sebbene si cominciasse ad abbandonare questa tecnica già con Masaccio, fu proprio il Bellini, seguendo l’insegnamento dei fiamminghi, a rovesciarla completamente.
Le zone oscure della roccia acquistano così una luminosità e una profondità senza precedenti nella pittura italiana. Queste qualità risultano inoltre evidenziate dal metodo delle velature, che il Bellini derivò pure dagli olandesi. In tal modo, per esempio, egli distendeva sopra un fondo di verde una velatura trasparente di bruno.
Tanto più la velatura poteva essere distesa irregolarmente, come nella chioma di un grande albero, tanto meglio il pittore poteva modificare la qualità di un verde, sia agendo sul pigmento stesso, sia sulla velatura soprastante. Con tale tecnica il Bellini raggiunse una nuova intensità di colore. L’atmosfera assunse una maggior vibrazione, e la diffusione della luce divenne il merito maggiore della sua pittura.
Arturo Carlo Quintavalle, Giovanni Bellini, 1964
… il confronto tra l’Orazione nell’orto del Mantegna e quella di Giambellino mostra chiaramente i due diversi tipi di accostamento al racconto. Mantegna costruisce un epos storico, con drappeggi neoromani, maschere violentemente espressive e, infine, all’interno di una tradizione scenica consciamente rievocata, stratifica la struttura del dipinto in un proscenio e in un luogo più alto raggiungibile da un ‘praticabile’ (la scala), ove sta il Cristo.
Giambellino nel suo quadro invece semplifica le strutture: le pieghe che Mantegna cita dalla plastica romana del II secolo d. C. si dissolvono in una modulazione diversa, non organizzata da una ‘regola’, e soprattutto l’impianto architettonico generale si muta.
La gran città storica di Mantegna con le rovine romane, le case medioevali, gli edifici rinascimentali, si trasforma in un paesaggio apertissimo, in una veduta — lontana — di qualche borgo sulla collina veneta.
E Bellini ce lo descrive, colpito dalla luce; e la stratificazione architettonica, segnapiano, che qui è creata dalla luce stessa, postula, a nostro vedere fin da adesso, l’esperienza di Piero, conosciuto dunque forse a metà secolo a Ferrara oppure, poco dopo, a Rimini, due tra le più famose corti settentrionali e certo mete di frequenti viaggi di Giambellino.
Camillo Semenzato, Giovanili Bellini, 1966
Fin dai primi dipinti, i sentimenti che incontriamo nell’espressione belliniana sfumano in un tono elegiaco. Abbiamo già osservato che non c’è in essi la determinatezza di una passione, come non c’è mai, nell’azione rapida, una drammaticità in atto. Allo stesso modo mancano affermazioni perentorie alla monumentalità del Bellini.
Come la sua eroicità è potenziale e viene allentata dalle divagazioni del colore e da una visione panica che annulla le gerarchie, così il significato drammatico delle figure devia in un insieme di rispondenze ritmiche, di correlazioni raffinate e mobili che lo attraggono in una sfera contemplativa.
Più che sviluppare una trama dal significato immediato ed evidente, ogni scena s’immerge in un sistema in cui i rapporti sono più sottili, più vasti, ed al di fuori dello schema che apparentemente prevale. È qui che si caratterizza in tutta la sua originalità la pittura di Giovanni Bellini, perché queste assonanze nascono all’interno della volumetria, si affidano alle vibrazioni sottili del colore, alle sequenze delle linee che divengono puro limite di cromie, di luci, di toni.
Richard Turner, The Vision of Landscape in Renaissance Italy, 1966
La concezione belliniana del rapporto tra figure e paesaggio si risolve in un approfondimento del loro carattere contemplativo. Le figure sono in riposo, oggetti silenti che si collocano con naturalezza nel paesaggio. Nelle sue maggiori pitture di paese — il San Francesco, la Preghiera nell’orto, la Madonna del
prato — il senso di religioso silenzio è senz’altro prevalente. Siccome le figure sono ferme, ne vi è alcun altro suono, tutto il nostro interesse è rivolto alla suggestione dello spazio e della luce, alle sottili allusioni che sono il segreto della pittura di paesaggio.
Andrea Pallucchini, Giovanni Bellini, 1966
Benché non ci siano rimaste testimonianze dirette sulla formazione umanistica di Giovanni Bellini, possiamo ricostruire il mondo in cui visse, la fervida spiritualità dei committenti, quali i Contarini, i Marcelle, i Vendramin; degli amici ed ispiratori, come il grande Pietro Bembo; dei colleghi scultori ed architetti, che nella seconda metà del ‘400 erano intenti ad inserire, nella complicata trama del gotico veneziano, organismi architettonici, magari attraverso le sontuose decorazioni policrome.
Non è certo un caso che la pala belliniana di S. Giobbe sia incastonata, con le sue architetture illusionistiche, nelle limpide strutture della chiesa rinascimentale, appena terminata; o la pala di S. Giovanni Crisostomo accordi la sua semplice solenne arcata con le strutture rigorose del tempio del Coducci.
Se, nella loro immobilità e immediata percezione, le forme figurative ci suggeriscono più facilmente le loro interdipendenze, più arduo è ascoltare la consonanza tra cultura letteraria, o filosofica, e cultura artistica; eppure è impossibile sfuggire alla suggestione di una affinità intellettuale ed umana tra un artista come Giovanni Bellini e un umanista come Ermolao Barbaro (1453-1493), soprattutto per il loro atteggiamento verso la cultura classica, conciliata con lo spirito del messaggio cristiano; o, in un tempo più avanzato, non fantasticare sulle amicizie e gli scambi culturali nella fervida fucina di Aldo Manuzio, nella quale convengono, oltre gli intellettuali veneziani, come il Bembo, studiosi d’ogni parte d’Italia, e dotti bizantini, che aiuteranno il Manuzio ad imprimere un carattere particolare all’Accademia Aldina, purista e filoellenica.
D’altra parte, il riesame dell’antica cultura, iniziato nella tipografia aldina con largo spirito eclettico, continua un suo filone, in cui trova posto, ai primi del ‘500, la fervida attività di Erasmo, e si insinua la sua tendenza allo scherzo, di gusto lucianeo.