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La pittura preromantica: Antoine-Jean Gros (Parigi, 1771 – Parigi 1835), uno tra i più efficienti allievi di Jaques-Louis David (Parigi, 1748 – Bruxelles, 1825), è un interprete della storia francese, talvolta con marcati accenti antieuropei.
Glorificatore del periodo napoleonico ed illustre ritrattista delle grandi personalità dell’Impero, rappresenta il suo eroe, Napoleone Bonaparte, in ispezione al campo di battaglia di Eyiau (1808) per esaltare e rendere immortali le sue vittorie.
I corpi dei soldati nemici senza vita distesi sulla neve, con membra e volti squarciati, sguardi sconvolti, vengono raffigurati privi di ideali nei momenti in cui sopraggiunge la morte.
Così il pittore documenta le oscenità del combattimento, dove nel febbraio del 1807 erano morti circa venticinquemila soldati tra francesi e russi. La caratteristica violenza che traspare dall’opera viene attenuata dalla figura dell’imperatore, gloriosamente in sella ad un cavallo color bianco: la tela piace molto allo stesso Napoleone, che promuove Antoine Jean Gros al grado di artista barone.
Le medesime innovazioni che si verificano nella pittura considerata “ufficiale” si trovano anche nei quadri che raffigurano semplici fatti di cronaca: l’uomo perde il suo ruolo di artefice di accadimenti e si ritrova a lottare contro le forze della Natura stessa.
Il pittore americano John Singleton Copley (1738-1815) rappresenta con meticolosa cura un episodio effettivamente accaduto, in un’opera che gli è stata richiesta dallo stesso protagonista, “Watson e lo squalo” (1778, Fondo Ferdinand Lammot Belin).
L’opera descrive la triste storia di un bambino quattordicenne che, attaccato da uno squalo perde il piede destro: il sangue che colora l’acqua, i compagni che cercano di salvarlo, il bambino che non riesce a prendere la cima (fune) lanciata da un indiano e lo squalo che viene arpionato, in un contesto fra orrore ed eroismo.
Quella dello squalo appartiene a una tematica realistica ben precisa, ma è anche l’incarnazione delle forze tenebrose della Natura, con le quali l’uomo può entrare in conflitto, dovendo superare certe difficoltà che spesso lo sconfiggono.
Anche Jean-Louis-Théodore Géricault (1791-1824), si dedica alla rappresentazione di un episodio reale accaduto agli inizi dell’Ottocento: la raffigurazione della “Medusa”, una fregata della Marina francese che affonda ed una nave che naviga al largo delle coste senegalesi, un fatto che suscita un forte clamore nel 1816.
Nella Zattera della “Medusa”, Géricault rappresenta uno dei momenti più strazianti della disgrazia: il profilarsi all’orizzonte di una nave in allontanamento, mentre i naufraghi la osservano scoraggiati, ma ancora con un briciolo di speranza sventolano due stracci (bianco e rosso).
Vengono così negate l’opportunità della salvezza, di un modo di vivere diverso, di un desiderio. Tutte queste cose risultano in contrasto con i colori scuri e bituminosi della vernice adoperata per dipingere il mezzo sollevato dalle onde, gli spruzzi d’acqua si evidenziano nei primi piani ed corpi sono straziati dalla pena e dal cedimento.
Nel ragazzo che indossa ancora le calze si mette in evidenza anche il realismo dell’opera. Si presuppone che per la raffigurazione della straziante scena, Géricault abbia impiegato anche cadaveri veri. Ecco che scaturisce una nuova tensione emotiva, pressoché religiosa, quella delle vittime. Géricault presenta la Zattera della “Medusa” nel 1819 provocando grosse polemiche che dureranno nel tempo.