LA PITTURA ROMANICA IN ITALIA
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Pitture nella Basilica di Castel Sant’Elia e Santa Maria in Campo Marzio
La pittura, in continuo sviluppo, prosegue la propria via ed entra nelle chiese e negli edifici dove esiste un legame più diretto con le tradizioni bizantine che decorano vaste superfici interne come pavimenti, pareti, volte e altari.
Molto spesso la pittura si limita alle parti più importanti ed entra in armonia con gli ornamenti plastici, mentre è abolita completamente nella maggior parte delle costruzioni romaniche, nelle quali viene enfatizzato soprattutto il pregio del materiale impiegato. In questi casi la decorazione pittorica interessa soltanto le pale d’altare e le croci che spiccano maestosamente sotto gli archi trionfali.
Nonostante la forte influenza bizantina nella nostra penisola, talvolta accentuata dalla presenza fisica di artisti bizantini, anche nella decorazione pittorica italiana si afferma una concitata ricerca diretta alla conquista della spazialità e della concretezza, spesso anche un po’ affettata, e comunque carica delle maniere occidentali.
È risaputo che i bizantini attribuivano molta importanza al modellato ed allo spazio e, proprio per questa ragione, cadevano spesso nella schematica convenzione regolata da rigide formule tecniche. A confronto di questi risultati, la pittura romanica gode di maggiore vitalità, benché sobria e riservata, e sfocerà più tardi nelle umane e calde pitture di Cimabue, Cavallini e Duccio. Questi tre grandi pittori escono da un ambiente artisticamente simile, ma consolidano una più vasta esperienza ed una più intensa espressività, tale da doverli considerare appartenenti al periodo gotico.
Nel periodo romanico, per quanto riguarda l’iconografia, la pittura di Roma segue ancora le proprie tradizioni, le quali sono affini agli affreschi del periodo a cavallo dei secoli XI e XII presenti nel transetto e nell’abside della basilica di Castel Sant’Elia presso Nepi (VT).
Queste opere, che raffigurano le Storie apocalittiche e Cristo fra i Santi, realizzate dai fratelli Giovanni e Stefano con la collaborazione del nipote Niccolò, sono cariche di cultura orientale, ed in particolare di quella di Costantinopoli.
Dalla raffinatezza del disegno (soprattutto nell’armonica articolazione dei panneggi) e dalla diafana delicatezza del cromatismo – che spiritualizza le figure fino a renderle anime senza corpo – risulta fin troppo chiaro il richiamo alla pittura bizantina.
La mano degli artisti Giovanni e Niccolò si ritrova anche in una tempera su tavola che raffigura un articolato Giudizio Finale custodito nella Pinacoteca Vaticana, realizzato secondo gli stessi schemi linearistici: un’opera dalla forma circolare ma a base rettangolare, originariamente appartenente all’Oratorio di San Gregorio Nazianzeno presso Santa Maria in Campo Marzio (Roma).
La composizione è su più registri con il Cristo Pantocratore in alto fra gli angeli ed i Serafini; scendendo si incontra un Cristo che prega in veste sacerdotale davanti ad un altare, tra gli Apostoli con i simboli della passione. Nel terzo registro sono raffigurate altre scene distinte con il buon ladrone Disma, che portando la croce, precede San Paolo seguito dai risorti, quindi la Madonna e Santo Stefano, e da ultimo, le sette opere di Misericordia (Visitare i carcerati, Vestire gli ignudi, Dissetare gli assetati). Sotto, nella superficie rettangolare, si ammira la Resurrezione dei corpi.