Passi del Journal di Delacroix (continuo degli scritti)

Il continuo dei Passi del Journal di Delacroix

1854

— Il bello implica la riunione di parecchie qualità: la forza sola, senza la grazia, non costituisce la bellezza, ecc. : in una parola, l’armonia dovrebb’essere la sua espressione più ampia. (senza data)

Da quando son qui [a Champrosay], quantunque la vegetazione sia poco avanzata, capisco meglio il principio degli alberi. Bisogna modellarli in un riflesso colorato come la carne:

il medesimo principio appare qui ancor più pratico. Non bisogna che questo riflesso sia del tutto un riflesso. Quando si finisce, si riflette maggiormente dove ciò è necessario e, quando si riprendono i chiari o i grigi, il passaggio è meno brusco. Noto che bisogna modellare sempre con masse che girano, come fossero cose non composte da un’infinità di piccole parti, quali sono le foglie: ma dato che qui la trasparenza è massima, il tono del riflesso ha nelle foglie un’importanza grandissima.

 

Osservare dunque:

1) questo tono generale che non è affatto ne riflesso, ne ombra, ne luce, ma è trasparente quasi dappertutto;

2) l’orlo più freddo e più cupo, che segnerà il passaggio da questo riflesso alla luce, che dev’essere indicato nell’abbozzo ;

3) le foglie completamente nell’ombra portata di quelle che stanno sopra, che non hanno ne riflessi, ne chiari, e che è meglio indicare ;

4) il chiaro opaco che dev’essere ripreso per ultimo.

Bisogna ragionare sempre così e soprattutto tener conto del lato da cui viene la luce. Se viene da dietro l’albero, questo sarà riflesso quasi completamente. Presenterà una massa riflessa nella quale si vedrà appena qualche tocco di tono opaco;

se la luce, invece, viene da dietro lo spettatore, cioè di fronte all’albero, i rami che sono dall’altra parte del tronco, invece d’esser rimessi, costituiranno delle masse d’un tono d’ombra unito e assolutamente piatto. Insomma, più i toni differenti saranno messi per piatto e più l’albero avrà leggerezza. Più io rifletto sul colore e più scopro come questa mezzatinta riflessa è il principio che deve dominare, perché è effettivamente ciò che da il vero tono, il tono che costituisce il valore, che conta nell’oggetto e lo fa esistere. La luce, alla quale nelle scuole insegnano ad attribuire un’importanza uguale e che mettono sulla tela contemporaneamente alla mezzatinta e all’ombra, non è che un vero e proprio accidente: tutto il vero colore sta lì: intendo quello che da il senso dello spessore e quello della differenza radicale che deve distinguere un oggetto dall’altro.                             (20 aprile)

 La prima idea, lo schizzo, che in un certo senso è l’uovo o l’embrione dell’idea, di solito non è affatto completo; contiene tutto, se si vuole, ma bisogna liberare questo tutto, che non è altro che la riunione d’ogni singola parte. Non la soppressione dei particolari, ma la loro totale subordinazione alle grandi linee che debbono colpire prima di tutto, fa dello schizzo proprio l’espressione dell’idea per eccellenza. La maggior difficoltà consiste dunque nel ritornare nel quadro a quella soppressione di particolari, che costituiscono tuttavia la composizione, la trama stessa del dipinto. Non so se mi sbaglio, ma credo che i più grandi artisti abbiano dovuto lottar molto con tale difficoltà, la più seria di tutte. Qui appar più che mai l’inconveniente di dare ai particolari, con la grazia o la civetteria dell’esecuzione, un interesse tale che poi fa rimpiangere mortalmente di sacrificarli quando nuocciono all’assieme. Qui i pennelleggiatori dal tocco facile e spiritoso, i fabbricatori di torsi e di teste d’espressione, trovano nel loro trionfo la loro confusione. Il quadro, composto di pezzi rapportati finiti con cura e messi l’uno accanto all’altro successivamente, sembra un capolavoro e il sommo dell’abilità finché non è finito, vale a dire finché il campo non è coperto: perché finire, per i pittori che finiscono ogni particolare posandolo sulla tela, consiste nell’aver coperto tutta la tela. Davanti al lavoro che cammina senza ostacoli, davanti alle parti che sembrano maggiormente interessanti perché non ci sono che loro da ammirare, si è colti involontariamente da un incauto stupore; ma quando è dato l’ultimo tocco, quando l’architetto di tutto quell’accozzo di parti separate ha posato il coronamento del suo edificio e ha detto l’ultima parola, non si vedono che lacune o confusione, e nessun ordine. L’interesse prestato a ogni oggetto svanisce nella confusione; quella che sembrava un’esecuzione precisa e conveniente, diventa freddezza per mancanza assoluta di sacrifici. Chiedereste allora a tale riunione quasi fortuita di parti senza il necessario legame, l’impressione rapida e penetrante, lo schizzo primitivo di quell’impressione ideale che l’artista deve aver intravisto o fissato nel primo momento dell’ispirazione? Nei grandi artisti, questo schizzo non è un sogno, una nube confusa, è ben altro che un assieme di fattezze appena percettibili; soltanto i grandi artisti partono da un punto fisso e proprio a tale espressione pura, nell’esecuzione lunga o rapida dell’opera, è loro così difficile tornare. Vi riuscirà, con quel cumulo di particolari che fanno perder di vista l’idea, invece di farla risaltare, vi riuscirà forse l’artista mediocre, preoccupato soltanto del mestiere? È incredibile fino a qual punto, per la maggior parte degli artisti, siano incerti i primi elementi della composizione. Perché si dovrebbero tanto preoccupare di tornare con 1′‘esecuzione all’idea che non hanno mai avuto?  (23 aprile)  

Sul ritratto. — Sul paesaggio, come accompagnamento dei soggetti. — Del disprezzo dei moderni per quest’elemento d’interesse. — Dell’ignoranza di quasi tutti i grandi maestri degli effetti che potevano trarne: Rubens, per esempio, che dipingeva benissimo il paesaggio, non si dava cura di metterlo in relazione con le figure, in modo da renderle più sorprendenti, — dico sorprendenti per lo spirito, perché per l’occhio in generale i suoi fondi sono calcolati per esaltare specie con il contrasto il colore delle figure. I paesaggi di Tiziano, di Rembrandt, di Poussin sono, generalmente, in armonia con le loro figure. Anche in Rembrandt — e qui sta la perfezione — fondo e figure fanno tutt’uno. L’interesse è presente dovunque: non si può isolare nulla, come in una bella veduta della natura, nella quale tutto concorre ad affascinarci            29 luglio

Tiziano, ecco un pittore che è fatto apposta per esser gustato da chi invecchia; confesso che quando ammiravo molto Michelangelo e lord Byron, non l’apprezzavo affatto. Egli commuove, credo, non per la profondità delle espressioni ne per una grande comprensione del soggetto, ma per la semplicità e per la mancanza d’affettazione. In lui le qualità pittoriche sono portate al punto massimo: quel che dipinge, è dipinto; gli occhi guardano e sono animati dal fuoco della vita. Vita e ragione sono presenti dovunque. Rubens è tutt’altro con tutt’altra immaginazione, ma dipinge veramente degli uomini. Entrambi falliscono solo quando imitano Michelangelo e vogliono arrivare a una pseudo grandiosità, che non è altro che ampollosità e nella quale di solito le vere doti si sperdono.  (4 ottobre)

Soltanto la solitudine e la tranquillità nella solitudine permettono d’accingersi a un lavoro e di compierlo.   (4 novembre)

1855

[…] vado a visitare la mostra di Courbet [all’Exposition Universelle], che ha ridotto l’ingresso a dieci soldi. (vi resto solo quasi un’ora e scopro un capolavoro nel suo quadro scartato; non riuscivo a staccarmene. Noto dei progressi enormi che m’hanno fatto ammirare il suo Funerale [a Ornans, del Louvre]. Qui i personaggi sono accatastati, la composizione non è bene intesa. Ma ci sono particolari stupendi: i preti, i giovani cantori, il vaso dell’acqua benedetta, le donne piangenti, ecc. ecc. Nell’ultimo (lo Studio [del pittore/pure al Louvre]) i piani sono a posto, c’è aria e ci sono parti di un’esecuzione pregevole: le anche, la coscia del modello nudo e il suo petto; la donna in primo piano con lo scialle. Il solo difetto è che il quadro che egli dipinge si presta all’equivoco: sembra un vero ciclo in mezzo al quadro.                                  (3 agosto)

[…] Ne aveva [padronanza del mestiere] anche Bonington, ma specie nella mano: la sua mano era così abile che preveniva il pensiero: i suoi cambiamenti erano dovuti soltanto alla grande facilità, per la quale tutto ciò che posava sulla tela era incantevole: solamente, siccome i particolari non si coordinavano spesso fra loro, i tentativi per ritrovare l’assieme gli facevano talvolta abbandonare l’opera cominciata,       /g/ dicembre)

1857

Tocco. Molti maestri hanno evitato di farlo sentire, pensando senza dubbio d’avvicinarsi al vero, che difatti non ne offre. Il tocco in pittura è un mezzo come un altro per contribuire a render il pensiero. Senza dubbio una pittura può esser bellissima senza lasciar scorgere il tocco, ma è puerile pensare che con ciò ci s’avvicini all’effetto del vero: sarebbe lo stesso che far in un quadro dei veri rilievi colorati, con la scusa che i corpi sono rilevati! In tutte le arti ci sono dei mezzi d’esecuzione adottati e convenuti e si è conoscitori imperfetti se non si sa leggere in queste indicazioni del pensiero; prova ne sia che l’uomo comune preferisce a tutti gli altri i quadri più lisci e con pennellate meno appariscenti, e li preferisce per questa ragione. Del resto, nell’opera d’un maestro, tutto dipende dalla distanza dalla quale si deve guardare il suo quadro. A una certa distanza il tocco si fonde con l’assieme, ma da alla pittura un effetto che la fusione delle tinte non può produrre. Invece, nel guardar molto da vicino l’opera più finita, si scopriranno ancora tracce di tocchi e d’accenti, ecc. […] Ne risulterebbe quindi che un bozzetto con un bei tocco non può dar piacere come un quadro molto finito, dovrei dire senza pennellate visibili: perché vi sono molti quadri nei quali il torco è completamente assente, ma che sono tutt’altro che finiti. […] Il tocco, adoperato come si deve, serve ad accentuare più convenientemente i differenti piani degli oggetti. Fortemente pronunciato, esso li fa venire in avanti: l’opposto li allontana. Anche nei quadretti, il tocco non dispiace affatto. Si può preferire un Teniers a un Mieris o a un Van der Werff.  Che dire dei maestri che accentuano seccamente i contorni pur astenendosi dal tocco? Nel vero non esistono contorni come non esistono pennellate. In ogni arte bisogna tornar sempre a mezzi convenuti, che ne costituiscono il linguaggio. Un disegno a bianco e nero, che cos’è se non una convenzione cui l’osservatore è abituato, convenzione che non impedisce alla sua fantasia di veder in questa traduzione del vero un equivalente completo? […] Se si obietta l’assenza di tocco in certi quadri di grandi maestri, non bisogna dimenticare che il tempo attenua il tocco. Molti di quei pittori che con la scusa che il tocco non esiste nel vero, lo evitano con la massima cura, esagerano il contorno che del pari non esiste in natura. Essi pensano così d’ottenere una precisione che è reale soltanto per i sensi poco esercitati dei semiconoscitori. Grazie a tal mezzo grossolano, nemico di qualsiasi illusione, essi si dispensano anche dall’esprimere convenientemente i rilievi, perché il contorno pronunciato in modo eguale e oltremisura annulla il rilievo facendo venir avanti le parti che in ogni oggetto sono sempre le più lontane dall’occhio, cioè i contorni. […] La smodata ammirazione per gli antichi affreschi ha contribuito ad alimentare in molti artisti tale tendenza a esagerare i contorni. In questo genere di pittura la necessità in cui il pittore si trova di tracciar con sicurezza i contorni […], è richiesta dall’esecuzione materiale; d’altra parte, qui come nella pittura su vetro i cui mezzi sono più convenzionali di quelli della pittura a olio, bisogna dipingere con una fattura larga ; il pittore cerca di piacere più con la monumentale disposizione delle linee e il loro accordo con quelle architettoniche che con l’effetto coloristico. […] Classico. A quali opere è più naturale che sia dato tale nome? Evidentemente a quelle che sembrano destinate a servir di modello, di regola in tutte le loro parti. Chiamerei volentieri classiche tutte le opere regolari, quelle che soddisfano lo spirito non soltanto con una descrizione esatta o grandiosa . o saporita dei sentimenti e delle cose, ma anche con l’unità, l’ordine logico, in una parola con tutte le qualità che accrescono l’impressione, facendo toccare la semplicità. […]

Soggetto. […] Non sempre la pittura ha bisogno d’un soggetto.                                          (13 gennaio)

Connessione. Quando gettiamo lo sguardo sulle cose che ci attorniano, paesaggi o interni, notiamo fra gli oggetti che si offrono alla nostra vista, una specie di legame prodotto dall’atmosfera che li avvolge e dai riflessi d’ogni sorta che in un certo modo fanno partecipare ognuno di essi ad una armonia generale. È una specie di fascino di cui si direbbe che la pittura non possa far a meno; eppure la maggior parte dei pittori ed anche dei grandi pittori non se n’è preoccupata. La maggioranza di essi sembra perfino non aver osservato nel vero quell’armonia indispensabile che in un’opera pittorica assicura un’unità che le stesse linee, ad onta dello schema più ingegnoso, non bastano a creare. È quasi superfluo dire che i pittori poco portati all’effetto e al colore non ne hanno tenuto nessun conto; ma la cosa più sorprendente è che in molti dei grandi coloristi tale necessità è stata trascurata molto spesso, certo per mancanza di sensibilità a questo riguardo. […]

Immaginazione: È la qualità prima dell’artista. Essa non è meno indispensabile all’amatore.                15 gennaio

Il sublime è dovuto nella maggioranza dei casi ad un contrasto deciso o a una sproporzione.            5 giugno

Una di queste mattine, mentre ero al sole nella mia loggia, ho notato l’effetto prismatico della quantità di piccoli peli della stoffa del mio vestito grigio. Tutti i colori dell’arcobaleno vi splendevano come in un cristallo o in un diamante. Ognuno di questi peli, essendo lucido, rifletteva i colori più vivaci, i quali mutavano ad ogni mio movimento; quando non c’è sole, non ci accorgiamo di questo effetto […].  4 novembre)

1860

Ardire. Occorre un grande ardire per osare d’esser se stessi: questa qualità è rara, specie nei nostri tempi di decadenza. I primitivi sono stati naturalmente arditi, starei per dire, senza saperlo; difatti, l’ardire maggiore sta nel liberarsi dalle convenzioni e dalle abitudini; ora, chi viene per primo, non ha precedenti da temere; dinanzi a lui il campo è libero: dietro di lui, nessun precedente per imprigionare la sua ispirazione. Ma nei moderni, in mezzo alle nostre scuole corrotte e intimidite da precedenti fatti per legare gli slanci presuntuosi, nulla di così raro come quella fiducia che sola fa creare i capolavori. (15 gennaio)

Per la prefazione del Dizionario [delle Arti Belle]. Un dizionario di questo genere sarà relativamente senza valore se opera d’un solo uomo d’ingegno; sarebbe meglio, o piuttosto sarebbe il migliore possibile, se fosse opera di parecchi uomini d’ingegno, ma a patto che ognuno di essi trattasse il proprio argomento senza la collaborazione dei colleghi. Scritto in comune, esso ricadrebbe nella banalità e non s’innalzerebbe molto al disopra di un’opera composta assieme da artisti mediocri. Le voci corrette da ogni collaboratore perderebbero la loro originalità per assumere sotto il livellamento delle correzioni un’unità banale ed inutile ai fini dell’istruzione. […] Lo scopo principale di un Dizionario delle Arti Belle non è di dilettare, ma d’istruire. Dare o chiarire certi principi essenziali, istruire gli inesperti con maggior o minor risultato, indicare la via da seguire e segnalare gli scogli sulle vie pericolose o bandite dal gusto, tale è il cammino che è opportuno proporsi; ora, dove trovare miglior applicazione di principi se non nell’esempio dei grandi maestri che hanno portato alla perfezione i differenti rami dell’arte? Quale cosa più istruttiva dei loro stessi errori? L’ammirazione che ispirano questi uomini privilegiati e venuti per primi, non dev’essere un’ammirazione cieca; adorarli in tutte le loro parti, sarebbe, specie per dei giovani aspiranti, la cosa più pericolosa; la maggior parte degli artisti, anche fra coloro che sono suscettibili d’una certa perfezione, è incline ad appoggiarsi sulle debolezze dei grandi uomini e a valersene. Le parti che, negli uomini privilegiati, di solito sono esagerazioni della loro sensibilità personale, diventano facilmente, nei deboli imitatori, errori grossolani; intere scuole sono state fondate su aspetti mal interpretati dei maestri, deplorevoli errori sono stati la conseguenza di questo zelo sconsiderato nell’ispirarsi ai lati cattivi degli uomini insigni, o meglio, dell’impotenza di riprodurre alcunché delle loro parti sublimi,                                         (16 gennaio)

Il realismo è la grande risorsa dei novatori in tempi nei quali le scuole illanguidite e volte alla maniera si riducono, per risvegliare i gusti viziati del pubblico, a girare nella cerchia delle medesime invenzioni. Una bella mattina il ritorno al vero viene proclamato da uno che si fa passar per ispirato …

(22 febbraio)

Non bisogna esser troppo difficili. Un uomo d’ingegno che scrive, non deve trattarsi da nemico. Deve supporre che quel che gli ha dato la sua immaginazione, abbia valore. Chi rilegge e tiene la penna in mano per correggere i propri scritti, è più o meno un altro uomo da quello del primo getto.   (8 marzo)

Rubens è straordinario. Che affascinatore! Qualche volta gli tengo il broncio: gli rimprovero le sue forme grossolane, la sua mancanza di ricerca e di eleganza. Com’è superiore a tutte quelle piccole qualità che costituiscono l’intero bagaglio degli altri! Almeno, lui, ha il coraggio d’esser lui: impone quei cosiddetti difetti che dipendono dalla forza che lo trascina e che ci soggiogano nonostante le regole buone per tutti fuorché per lui. […] Rubens non si corregge, e fa bene. Col permettersi tutto, egli ci porta oltre il limite raggiunto a stento dai più grandi pittori; ci domina, ci schiaccia sotto tanta libertà e audacia.                                         (21 ottobre)

1863

Il primo pregio d’un quadro è d’essere una festa per gli occhi. Non è da dire che in esso non sia necessario l’intelletto, è lo stesso per dei bei versi, tutto l’intelletto del mondo non impedisce loro d’essere brutti, se urtano l’orecchio. Si dice: aver orecchio; non tutti gli occhi son fatti per gustare le delicatezze della pittura. Molti hanno un occhio che non giudica bene o che non reagisce; vogliono letteralmente gli oggetti, ma la squisitezza, no.                        (22 giugno)

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