Citazioni e critica su Francisco Zurbarán: La critica di esponenti dello scorso secolo (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)
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Cosa hanno detto i critici della Storia dell’arte su Zurbarán
kehrer, Francisco de Zurbarán, 1918
(Kehrer) L’arte di Zurbarán ci si è rivelata. Il maestro ci appare quale personalità fermamente delineata. Non occorre più dire che egli non negò la tradizione, ma che sorse dal terreno dell’arte sivigliana. In che cosa consiste dunque la sua personale grandezza? Egli ha parlato con sublime schiettezza e semplicità, nello spirito di una pura oggettività. Artisti come Hans von Marées avrebbero trovato per lui parole di altissima ammirazione. Zurbarán non era uno spirito di genialità problematica.
Sin dalla giovinezza egli si impose in realtà un unico compito: come debba essere concepita la singola figura umana perché possa apparire monumentale. In quanto si approfondì in questa direzione egli divenne unilaterale, ma in questa unilateralità scoprì la propria grandezza. Se già allo stesso Velàzquez non venne risparmiato l’appunto di “aver dipinto solo teste” — e il suo regale signore lo aveva splendidamente difeso da questa accusa —, così si potrebbe dire di Zurbarán che egli dipinse soltanto frati. Ma con ciò si individua il nucleo della sua arte, e diventa possibile valutarne giustamente il significato.
Ed ancora
La grandezza di un artista sta forse nella vastità della sua tematica? Chi ha saputo rappresentare dei frati meglio di lui, cioè con maggiore potenza, monumentale? Nessuno prima di lui ne dopo di lui lo ha uguagliato in questo, nonché superato. Zurbarán non fu soltanto il classico pittore barocco di figure isolate, ma anche il classico della rappresentazione della quiete in sé, di una quiete che può veramente chiamarsi santa. In profondo contrasto con la sua epoca, egli non si avventurò alla ricerca di effetti stupefacenti, e l’illusione del movimento vorticoso manca in lui quasi completamente. I concetti di movimento e di massa hanno un valore e un senso molto limitati per questo spagnolo, proprio come per l’olandese Rembrandt. Ad essi si adattano altrettanto male, quanto si adattano bene al fiammingo Rubens. Il barocco spagnolo è qualcosa di diverso dal barocco italiano e tedesco : sarà compito di un lavoro futuro mettere in evidenza la sua particolare posizione nell’evoluzione stilistica del Seicento. kehrer, Francisco de Zurbarán, 1918
R. Longhi
[…] Fu chiamato talora il Caravaggio spagnolo, ma con soverchio semplicismo, perché, sebbene insistesse più a lungo che non il Velàzquez nei contrasti di un chiaroscuro estremo, se ne valse, più che per una libera indagine pittorica, agli effetti di un austero, drammatico rigore, versato quasi esclusivamente negli argomenti religiosi e monastici. Come un popolano, un aldeano, che cerchi un solido ‘manichino’ spirituale cui tener fede, egli ritagliò i suoi frati bianchi nei cartoni di un fanatismo drammatico e popolare: li dispose poi secondo le tracce compositive più varie (sebbene si tenesse di preferenza agli schemi più arcaici che danno a tanti suoi quadri un sapore primitivo) e, come ogni spagnolo di quei tempi, mescolò a quegli austeri schematismi frammenti di realtà superbamente tangibile : dai suoi famosi panni bianchi frateschi, ai cesti d’ova, agli agnelli dei presepi rusticani, e via dicendo. R. Longhi ” A. L. mayer, Gli antichi pittori spagnoli della collezione Contini Bonacossi, 1930
F. Sànchez – Cantón
[…] Guardate, come somma di caratteri che l’analisi ci consentirà di provare, quel mirabile Sant’Ambrogio del Museo di Siviglia, e osservate la qualità del sontuoso piviale e della mitra, e notate il valore che oserei definire più costruttivo che scultoreo dell’imponente figura; con pedanteria, ma giustamente, sarebbe possibile dire che l’architettura si sovrappone alla plastica. Forse udendo ciò penserete a un pittore preoccupato solo della materia, e desidero fare una precisazione : se per Zurbarán esisteva il mondo esterno, quello interiore e quello soprasensibile avevano una realtà non meno vigorosa ed efficace. Si da in lui più che in qualunque altro artista spagnolo ciò che chiamerei ‘realismo integrale. Quell’armonico e vitale principio che formulava santa Teresa di Gesù quando diceva che “Dio va anche tra le pentole della cucina”. Il parallelo suggerito non è fuori luogo; vedremo pentole di Zurbarán in cui il genio dell’artista, mosso da Dio, ha lasciato durevoli elementi di emozione plastica. Ne erudizione, ne attitudine a creare composizioni complicate, ne ingegno per l’allegoria o il simbolo. Se volessimo contrapporgli una grande figura europea contemporanea, si materializzerebbe quella di Rubens. È difficile incontrare due pittori più differenti, e senza dubbio la sensibilità è una delle qualità eminenti anche del genio di Rubens; non si dimentichi che Lope de Vega lo chiamava “gran poeta degli occhi”, benché entrambe siano sensibilità di segno diverso. F. Sànchez – Cantón, La sensibilidad de Zurbarán, 1944
H. P. G. Seckel
Nelle nature morte di Zurbarán non c’è nulla del dramma secolare, dell’esibizione teatrale, dell’esuberanza materialistica delle pitture di genere e delle nature morte dei contemporanei italiani, olandesi, fiamminghi e di molti artisti spagnoli. Non c’è nulla della seducente esibizione di costose ghiottonerie e preziose stoviglie su tavole coperte di broccato, che facevano appello ai sensi dei commercianti borghesi dell’epoca. Non c’è nulla della saturazione noncurante della tavola semisparecchiata, con i suoi elementi di studiato disordine, che assume quasi la statura di principio estetico. Questi elementi laici sono in diretta contraddizione con lo spirito religioso e la semplicità che pervadono le nature morte di Francisco de Zurbarán. H. P. G. Seckel, Francisco de Zurbarán as a painter of Still-life, in “Gazette des Beaux-Arts”, 1946.
F. Pomfey
Come uomo e come artista Zurbarán fu coerente; in equilibrio costante con la sua maniera di vedere e di sentire. Conosceva bene se stesso e adempì ammirevolmente al precetto socratico; sapeva che cosa era capace di fare, e con intelligente intuizione non prendeva strade diverse dal cammino autentico della personalità; coltivava amorosamente i fiori del suo ‘giardino interiore’; giardino che non esala la voluttuosa fragranza del cromatismo sorridente di Murillo, ne la ricchezza artistica dell’intellettualismo italianizzante di Juan de las Roelas; ne i suoi fiori possiedono la incomparabile perfezione del giardino di Velàzquez. Possedeva però una grande capacità artistica, una straordinaria personalità. Grazie alla sua esaltata sensibilità coloristica, si formò una tavolozza straordinariamente bella, con cui ottenne dei risultati fino ad allora inediti, con il contrasto fra due toni, sia negli incarnati con il rosso e le terre chiare sia nelle vesti con il suo caratteristico effetto luminoso nei bianchi. F. Pomfey, Zurbarán, su vida y sus obras, 1948.
S. Dalì
Attenzione! Zurbarán ci sembrerà ogni giorno più moderno, e molto più categoricamente del Greco italianizzante rappresenterà la figura del genio spagnolo. S. Dalì, Genio y figura de la pintura espanola, in El alma de Espana, 1951.
J. Milicua Ilarramendi
Alcuni dei principi e degli elementi fondamentali dello stile di Zurbarán si connettono strettamente alle preoccupazioni che contraddistinguono l’avanguardia della sua generazione : così la sua ansia di captare con fedeltà le apparenze formali, il volume e la struttura particolare di ogni cosa; e l’uso, non sistematico, ma che lascia traccia permanente in lui, del metodo di illuminazione di origine caravaggesca, quella luce violenta e monodirezionale che imprigiona le immagini iniettando loro una forza di presenza straordinaria. Questi elementi stilistici ‘moderni’, che però nel 1630 già declinavano in tutta Europa, si uniscono a schemi compositivi e note di colore che derivano da una cultura più antica, in parte della generazione sivigliana anteriore (Roelas, Herrera il Vecchio, Pacheco). Ma la discriminazione critica delle componenti del suo stile non è, in ultima analisi, valida per intuire l’autentico contenuto poetico di Zurbarán. Ciò che rende indimenticabili, per esempio, le sue nature morte è il loro significato misterioso, impossibile da definire a parole perché fa appello direttamente alla sensibilità; le quattro stoviglie di modesta qualità borghese sembrano l’offerta di un arcano rito religioso, ordinate sotto la luce quieta secondo uno ‘spirito di geometria che si riallaccia alla mistica spagnola, non a Descartes. […].
Ed ancora
Ma Zurbarán non ebbe, o non gli interessò sviluppare, la facoltà innata in Velàzquez di mettere assieme parti indipendenti di diversi modelli in una unione di naturalezza convincente, di scena ripresa all’improvviso nella realtà circostante. Secondo quanto è possibile vedere soprattutto nelle sue grandi composizioni, Zurbarán articola i dati reali laboriosamente, con candore da primitivo. Da ciò proviene in gran parte quell’aria arcaizzante che ci incanta nella sua pittura. Nell’arte del vigoroso Zurbarán ammiriamo prima di tutto la sua poetica quieta e la sincera devozione con cui il pittore si avvicina agli oggetti per trascriverli amorosamente sulla tela, impregnandoli di una vita nuova e silenziosa, compiendo quell’opera di ‘rivelazione’ propria di ogni artista autentico. La sua fantasia ci sorprende con sante di una deliziosa mondanità, vestite con lusso provinciale, alcune ritratte ‘a lo divino’. Altre volte con immagini devozionali di tremenda verità, tra le più profonde e sentite che abbia dato l’arte spagnola di ogni tempo. […] In altri quadri di maggior complessità, i panni si dispongono in modo da creare, indipendentemente dalla composizione figurativa, una composizione autonoma di piani colorati. Questo aspetto ‘astrattista’ della sua arte ha contribuito non poco alla diffusione che la fama di Francisco de Zurbarán ha conosciuto negli ultimi venti. J. Milicua Ilarramendi, Zurbarán, s.d.
J. Lassaigne
In effetti Zurbarán non è uno di quei patriarchi della pittura che, nella voluttà della creazione e nella curiosità della vita, ritrovano le fonti di una nuova giovinezza. La sua opera implica una tale tensione, che non può essere prolungata indefinitamente. È talmente astratta e volontaria, così lontana da ogni riferimento materiale e da ogni altra influenza, che il pittore non può sperare di trovare un confronto nel riferimento alla realtà. Alle origini, c’è un incontro di ciò che è mentale e di ciò che è fisico; nell’inconscio dell’artista si produce una specie di sedimentazione che sovrappone, ad un determinato soggetto, immagini di grandissima intensità che la mano realizza con una mirabile e minuziosa fedeltà. Zurbarán può ricercare questo urto iniziale e rinnovarne gli effetti, ma solo le prime espressioni restano perfette e più cariche di significati. La ripetizione può depurarle, ma non arricchirle. Non si potrebbe porre la questione del progresso e del perfezionamento.
E ancora
Il giorno in cui un tale dispendio di energie non è più possibile, l’opera è conclusa. La moderna pittura metafisica ha conosciuto una fine altrettanto brusca. […] Questo pittore è uno dei più sorprendenti che siano mai esistiti. È possibile trovare degli antecedenti a questa o a quella parte della sua opera, ma non dei maestri. Le sue nature morte fanno pensare a Cotàn; certe teste di vecchi, come il San Pietro di Siviglia, il san Gerolamo di Guadalupe nelle Tentazioni di san Gerolamo, richiamano alla mente figure che Ribera disegnava con tanta insistenza. Ma in verità Zurbarán deve tutto soltanto a se stesso. È unico e solo. La semplicità della sua formazione ha avuto rispetto del suo temperamento malinconico e selvaggio ; la sua opera conserva sempre un accento di semplicità. La curva così variabile della sua produzione indica che egli ha dipinto solo per rispondere ad un istinto profondo. Quando comincia a dubitare se ne sta in silenzio e la sua vita è segnata da veri e propri ritiri, nella giovinezza e dopo il 1640. La perdita dei quadri dipinti in questi periodi non costituisce una spiegazione plausibile. Nei momenti di pienezza e quando è d’accordo con le cose, il pittore esplica un’intensa attività. Quando attraversa una crisi interiore, come alla fine della vita, le opere denunciano dispersione ed assenza di equilibrio. J. Lassaigne, La pittura spagnola, 1952
C. Sterling
Gli Aranci e limoni [già Contini Bonacossi] è uno dei capolavori della natura morta di tutti i tempi. L’influsso caravaggesco vi è patente: forme come purificate dalla luce, precisione cristallina del particolare e tuttavia densità monumentale dei volumi. Ma appare completamente assimilato da uno spirito che aspira a uno stile più severamente controllato e più cosciente delle sue capacità di espressione spirituale di quanto non sia mai stato quello del Caravaggio. Zurbarán è dotato al massimo grado di questa “capacità di stupirsi” che è alla base di ogni creazione e che Henri de Focillon sapeva così bene indicare attorno a sé. Ogni originale pittore di nature morte non fa altro che testimoniare del suo stupore di fronte alla bellezza delle cose. Ma pare che nel Seicento gli spagnoli — come abbiamo visto in Cotàn — sentissero più profondamente degli altri le trasformazioni e i ritmi inattesi che il sole impone agli oggetti e da cui il pittore può trarre armonie quasi musicali. Zurbarán non dipinge che pochi oggetti per volta e ce li restituisce in tutta la loro integrità; il volume e la linea conservano in lui un’eloquenza simultanea; non permette mai che la luce o l’ombra assorbano una parte del rilievo o il frammento del contorno di un oggetto. Così pensa l’oggetto invece di dipingerlo semplicemente come il suo occhio lo registra. La sua composizione, che Cavestany definisce così bene “compensata”, non è meno lucida. Il pittore accorda l’arabesco di una foglia alla curva di un limone, e alla svasatura di una tazza fa corrispondere la svasatura di un paniere; è convinto, proprio come Cézanne o come Braque, che con una natura mortasi può fare una sinfonia plastica. C. Sterling, la nature morte de l’antiquité a nos jours, 1952.
B de Pantorba
[…] Le sante di Zurbarán, numerose — ripartite fra musei e collezioni private —, formano un capitolo importantissimo dell’opera del maestro. Quasi tutte a figura intera, gentili, molto belle, più che immagini sacre, malgrado gli attributi religiosi o i segni della santità che alcune presentano, sembrano ritratti di giovani dame andaluse lussuosamente vestite, riccamente abbigliate. […] In tutte, Zurbarán fa sfoggio della sua maestria nel dipingere le vesti e impiega i più vari e ricchi colori della sua tavolozza. Con questi pomposi abiti delle sue sante, in cui giocano tutti i colori dell’iride, il pittore si risarcisce, si prende la rivincita di ciò che potremmo chiamare astinenza nel campo del colore. La tavolozza degli insuperabili bianchi paglierini, delle calde terre e dei raffinati bruni e dei neri violacei si compiace e si diletta dipingendo abiti dai brillanti toni rossi, verdi, gialli, azzurri… Nei ritratti di monaci, Zurbarán ci mostra la profondità e il vigore del suo disegno; qui c’è l’uomo che sa fissare il carattere, il tipico. Nelle figure di sante, si rivela per la prima volta l’abbondanza cromatica di un pittore cui piace raffigurare ricchezze ed eleganze proprie dell’abbigliamento femminile: tele sontuose, ricami, pizzi, tulli, gioielli e qualche volta il lindo e arioso cappelline, come nella seducente Santa Margherita di Londra. Martiri?…
E ancora
Vergini consegnate al sacrificio per mantener viva la loro fede nella dottrina sublime del Crocifisso?… Chi potrà veder questo nelle sante, un poco o molto mondane, di Zurbarán? Niente si troverà in loro che ricordi o suggerisca sangue e morte. Niente di terribile e duro. Fino a questa fanciulla che mostra il piatto dove palpitano i suoi seni appena recisi; lo fa con atteggiamento sereno e con un gesto privo di dolore…
Possiamo, forse, sopprimere dai titoli la parola comune che unisce queste fanciulle. Non riusciranno certamente a convincerci che sono sante, che sono donne di ardente misticismo e carne disposta all’olocausto, le belle fanciulle che posero davanti al loro grande pittore la loro dolce grazia sivigliana, e oggi, raccolta dal pittore, ci portano la miracolosa fragranza, mai appassita, della loro giovinezza. B de Pantorba, Zurbaran, 1953.