Citazioni e itinerario critico su Tiziano Vecellio
(citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)
Pagine correlate all’artista: La critica nei secoli – Biografia e vita artistica – La pittura di Tiziano e le sue opere – Il periodo artistico – bibliografia.
Il pensiero critico degli studiosi di Storia dell’arte su Tiziano:
(M. Dvorak) La forza motoria, l’energia particolare del colore, ch’è diventata qualcosa di più d’un ingrediente coloristico o d’un mezzo atto a rispecchiare la percezione sensibile, [Tiziano] la trasforma, per così dire, in un fluido immateriale, in un fattore autonomo in grado di suscitare anche da solo, indipendentemente dalla composizione plastico-lineare, quella partecipazione spirituale che costituisce per noi la caratteristica più importante della nuova arte.
Così, tra gli ultimi lavori di Tiziano troviamo quadri che non intendono essere altro che sinfonie cromatiche, e sarebbe puerile il volerli misurare col metro dei disegni naturalistici o accademici. Il colore, nel quale le ricchezze di una tavolozza inesauribile si uniscono in un effetto pressoché monocromo, vibra come una creatura viva, all’unisono con la sensibilità dello spettatore. E quest’emancipazione dei valori espressivi coloristici ha schiuso un gran numero di possibilità nuove alla pittura: a lei dobbiamo buona parte degli effetti dell’arte della composizione barocca, esaltati fino alla massima tensione dell’immaginativa. L’esperienza così ottenuta determinò il cammino di quella pittura eccessiva, che vide il proprio compito principale nella resa dei processi coloristici naturali. In tal modo, anche qui il nuovo idealismo ha schiuso nuove possibilità a un susseguente naturalismo. M Dvorak 1918-21[1918-21].
Nella pittura di Tiziano il paesaggio rivela una forza espressiva che la precedente arte non aveva conosciuto. Si tratta, certo, di un’innovazione di Giorgione; ma, salvo che nella Tempesta, è proprio Tiziano che bisogna principalmente riconoscere in quelle opere dove, come la Venere di Dresda, la natura, con la sua penetrante poesia, amplifica la nudità splendida delle Veneri: essa è sempre stata assai più di un semplice ornamento visivo, per Tiziano. I più sensibili paesisti — quali Gentile Bellini o il Carpaccio — si sono compiaciuti di annotare minutamente le pittoresche fantasie della luce sulle architetture e sulle acque, ma poi hanno messo in primo piano figurine che appaiono indifferenti alla seduzione di un tale spettacolo. Quanto è diverso, invece, il compito della natura in Tiziano. Negli affreschi di Padova, non c’è dubbio, il paesaggio è ancora un episodio che mira a compiacere l’occhio;
eppure, nel Miracolo della donna ferita, esso aggiunge una nota di terrore utile al dramma: occorreva proprio un paese da imboscata, adatto ai colpi di pugnale; e la roccia selvaggia getta un’ombra tragica sul delitto.
Da allora in poi, Tiziano fu prodigioso nell’evocare, mediante la scelta dei luoghi e delle luci, l’esatta impressione che i drammi da lui descritti vogliono produrre. I suoi paesaggi
hanno un’anima. L Hourticq, La giovinezza di Tiziano.
… Forte, coi suoi santi imponenti cresciuti tra le rocce del Cadere, con le Madonne e i putti, fiori delle Alpi, Tiziano s’imbatte in Giorgione, il raffinato, il poeta, il musico della pittura. E si accorda con lui; sente come il tono del colore sia il mezzo artistico più adatto alla rappresentazione del movimento, poi che esso contiene in sé gli elementi di vibrazione proprii dell’onda luminosa. Ma l’atmosfera di sogno delle figure create da Giorgio di Castelfranco non era propria a Tiziano: ed ecco che egli lancia i suoi protagonisti nel dramma. Non la stasi solenne, nel silenzio dell’adorazione, nella luce del crepuscolo, nelle penembre misteriose: Tiziano ha bisogno di respirare a pieni polmoni, di farsi largo, di far squillare i colori. Quando interpreta Giorgione nella Zingarella di Vienna, nel San Marco della chiesa della Salute, e in altri quadri, si sente come a fatica la sua forza rusticana si adatti alla preziosità della tavolozza giorgionesca, come le sue tinte calde, i suoi rossi di fuoco rompano la pace di quei toni, e le sue forme piene di baldanza, di grandezza, di movimento drammatico, escano dalle linee lievi, dalle piume giorgionesche, e sempre più si accentuino, s’ingagliardiscano, si faccian sonore. Ben presto Tiziano, accentuando le forme, fa sprizzare da esse scintille di vita; e forma i suoi tipi di bellezza, le sue gagliarde figlie del sole.
Passa di contro alla greca Afrodite dalle carni di marmo pario, la Venere di Tiziano, temprata dal fuoco, nata fra gli ori e le gemme della casa del sole, nell’amore e nella voluttà. La modernità, in tutta l’arte di Tiziano, scorre come sangue caldo, pulsa forte dal suo cuore. L’aria circola, e, dalle bianche nuvole trasportata nel cielo azzurro, inonda la terra, carezza le figure, le immerge in sé; e corre nei paesi fecondi, li rinfresca, li allieta. Scorre come vivo sangue nelle carni il colore; s’infoca e impallidisce, inturgidisce e si spiana; foggia le vesti, spumeggiando alla luce con le tessiture, marezzando la seta, addensandosi nei velluti, imperlando i rasi. È una ricchezza che si profonde su tutto, che avviva, ingrandisce, da forma eroica agli uomini vissuti quando Carlo V calpestava col suo cavallo le terre lombarde, le pianure delle Fiandre, la Germania meridionale; e quando Filippo II voleva Veneri per i suoi sensi, e voti per l’Escuriale, anche per l’altare a Lorenzo Martire, che gli aveva data vittoria a San Quintino.
Gradatamente il Vecellio comprese la forza idealizzatrice dei colori meno definiti, meno accentuati, più liberi e mossi, natanti nella luce e nell’ombra, delle masse cromatiche sgranate dall’atmosfera luminosa; e creò, come abbiamo veduto, altri capolavori. Le immagini, diventando meno concrete, diedero del mondo una visione commossa; l’amor della luce infuse negli esseri la vita. Il dramma umano divenne il dramma del cielo e della terra. Alla morte del Cristo scoppia l’uragano; l’ombra, le tenebre son veli di lutto; la luce erompe, divina aureola al Crocefisso. Il cielo stesso riflette la passione degli uomini; si tinge di sangue, nel crepuscolo della vita di Carlo V; copre torpido, greve, gli ebbri di piacere. La pennellata divien rapida e intensa: par che a colpi di spugna intrisa di colore s’infiammi il cielo dietro Venere che benda Cupido. È uno scrosciar di colori sui campi dorati dall’autunno, sul verde bruciato dal sole, sulla terra ardente. A. VENTURl, Storia dell’arte italiana, IX, 3, 1928.
La struttura pittorica di questo dipinto [L’incoronazione di spine a Monaco] ci introduce nei più profondi segreti dell’arte di Tiziano, anzi dell’arte in generale. L’onda del colore è sublime come il movimento del mare, come la voce di un organo. E come la vox humana, sollevandosi improvvisamente in una melodia al disopra del solenne accompagnamento, parla all’anima, così i colori splendono puri e luminosi sopra le onde di una pittura quasi monocroma: rosso, giallo, azzurro metallico e verde scoccano nella tenebra come lampi colorati. Quasi due generazioni prima, il medesimo incanto ci ha stupiti, quando Tiziano faceva risuonare in un quadro quasi monocromo tutte le ricche tonalità della carnagione, per mezzo di un sottile nastro giallo, che agiva come il tocco di una bacchetta magica. Ora, la più alta saggezza del vegliardo si fonde con uno stato d’animo sublime, in un’opera accanto alla quale possono essere collocate solo poche creazioni dello spirito umano. W. Suida, Tiziano 1933.
Con gli altri grandi maestri dell’alto Rinascimento, Tiziano ha fondato l’era delle Belle Arti e con esse ha inaugurato un dominio della figurazione, indipendente dalla realtà e superiore a essa per potenza. Ma, poiché il suo apporto personale in tale elevazione dell’arte su un piano più alto e più nobile risiede nel vigore della percezione e nella naturalezza della sua visione, più che ogni altro artista egli ha contribuito a rendere il bello artistico un bisogno generale dell’intelletto. Non a caso egli è stato il pittore favorito delle corti e il pittore in titolo di un imperatore: grazie a Tiziano, l’arte è divenuta un segno di distinzione sociale, parte essenziale della comune cultura, succedendo ad altre forze spirituali in via di scomparire. Tale concetto dell’arte è prevalso fino al pieno secolo XIX, e i suoi ultimi corollari si son fatti avvertire fino alle soglie del nostro tempo; colui che con l’opera sua ha concretato quest’ideale inerita una posizione altissima nella storia dello sviluppo dello spirito umano. Tiziano non è solo un gran pittore: è al tempo stesso, e proprio perché ha inteso non essere altro che un gran pittore, un fenomeno storico denso dei significati più eletti. H. tietze, Tiziano, 1936.
Tutta l’attività di Tiziano è contrassegnata da un continuo approfondimento di valori espressivi, in funzione di una verginità sempre rinnovata di ispirazione. L’affermazione di Delacroix che: “II obéit a chaque instant a une émotion vraie, il faut qu’il rend cette émotion” coglie effettivamente il miracolo per cui ogni sua opera è un cosmo nuovo; non si ha in lui il compiacersi di una trovata, di una formula o di un atteggiamento già raggiunto. Ogni opera che sia davvero autografa (e in questo senso la critica filologica ha ancora parecchio lavoro) è necessaria alla storia di Tiziano: in ciascuna di esse il suo sentimento si configura con una certa novità, con un impegno diverso e sempre rinnovato. Negli stessi ritratti, che sembran più legati ad una realtà esterna o ad una etichetta, l’ispirazione dimostra l’insofferenza continua di un cliché, o di una situazione tematica e formale già raggiunta. Solo un palpito intenso di umanità poteva suggerire a Tiziano la stupenda vitalità del suo gusto e concretarsi nei molteplici aspetti della sua arte. R. pallucchini, La pittura veneziana del Cinquecento, 1944.
Tiziano giovane sgombra pienamente la timidezza di Giorgione. A questo fine egli sopprime ogni residuo di sfumatura preraffaellita e ritorna a meditare sui quattrocentisti locali, sul Bellini e sul Carpaccio, come dimostra chiaro il quadro, così arcaistico, di Anversa. Per la stessa ragione i sublimi affreschi padovani del 1511 riescono come di un Piero moderno, dove, nel contrasto di massa tra luce e ombra, l’ombra trapassi in ‘tono’ e si trasponga sul piano ideale del colore; s’inserisca cioè senza sbalzo plastico, senza chiaroscuro, senza sfumatura, nella paga felicità di un ‘largo cromatico’. Pure, anche il movente classicistico di Giorgione serviva ora a qualche cosa, che la sutura delle forme non avviene più sul filo dei volumi e dei piani quasi cristallizzati come in Antonello, nel Bellini, nel Carpaccio, cioè soltanto per disposizione o giustapposizione, ma per matura ‘composizione’ di gesti liberi e profondi, direi quasi in arcata spaziale. S’imbastiscono i corpi come un’immaginaria pittura greca che abbia conquistato ad un tratto la facoltà di attraversare solidamente lo spazio. Ripenso ai due quadri estensi col Baccanale e la Festa degli amorini, alle Tre età di Lord Ellesmere, e mi avvedo che mai Firenze e Roma seppero altrettanto rivivere una sognata classicità. In tutto Tiziano giovane è veramente qualche cosa di fidiaco: il suo impasto stesso ha il tepore vivente del marmo greco: e la medesima sensualità sublimata, incolpevole, in confronto a quella troppo carica e flagrante del Giorgione ultimo. Avevo detto che i corpi s’imbastiscono: imbastitura è abbozzo; ed è proprio ai limiti di ogni zona cromatica che Tiziano lascia il respiro di un abbozzo mutevole, di una vita cangiante e in crescenza. Crespe delicate e volanti, bruciature, liquefazioni lievi, tocchi brulicanti, che rammentano le dolorose cicatrici del Cézanne quando cercava di réaliser; ciò che a Tiziano riesciva senza pena. Questo avviene a Venezia mentre a Roma Raffaello dipinge le Stanze e Michelangelo, maledicendo, a cervice riversa, termina la volta Sistina. … Come poi Tiziano, e per quasi un quarto di secolo fin verso il ’45, lottasse con vario esito coi ‘demoni etruschi’ che salivan d’ogni parte verso Venezia, è una storia che … tocca in quegli anni quasi ogni dipinto del maestro: il Bacco ed Arianna, opera da piacere al Rubens, non più ai classici greci; il San Sebastiano del trittico di Brescia, certe parti della pala Pesare esemplari per il Van Dyck, il perduto, celeberrimo San Pietro Martire di San Zanipolo, il Battista greve dell’Accademia, la gonfiante Flagellazione del Louvre, anch’essa, come YEcce Homo di Vienna, esemplare per il Rubens, e, infine, quel soffitto di Santo Spirito, oggi alla Salute, che il Boschini, forse perché vi vedeva un preludio alla (umidezza tintoresca, salutava osannando : ” O che bei contornoni! O che gran forme! || Che movimenti in scurzo vivi e fieri!”; grida che ci lasciano freddi …
In confronto al candore innocente del San Marco che ombrato risplende nella paletta giovanile della Salute, quanta superbia morale, che ostinata dominazione [nel San Giovanni elemosinano del 1545]! Firenze e Roma hanno ormai convinto Tiziano che l’umanità, persino in figura di mendico, non possa agire che per investitura di dignità e potenza; ma quanto più il gesto è di violenza sorvegliata (e qui di meditato contrapposto tra lettura e beneficenza), tanto più Tiziano l’affatica e consuma, aggredendolo d’ogni parte con le sue sferzate d’aria e di lume carico e strisciante, in una specie, direi, di flagellazione cromatica.
Quando si pensi all’accomodamento facile tra eleganza formale (tratta dalle riserve parmensi) e fermento di colore, trovato in quegli stessi anni dallo Schiavone, s’avvertirà meglio a che abissali profondità s’aggirasse ora lo spirito di Tiziano, implicato in questo dramma crescente dal corpo stesso della pittura. La forma antica è un mito irrecuperabile, il ricordo larvale di una potenza perduta e avvolta ormai da un velame cosmico, caotico come nell’Annunciazione di San Salvatore, uno dei dipinti più disperati dell’arte: dove la stanza è invasa come da un rogo semispento d’apocalisse che screzia le figure, le imbratta, le usura in un aspetto di ‘impressionismo magico’. E l’apocalisse seguiterà negli spettri e nelle allucinazioni del Greco. R. longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana 1946.
L’esperienza manieristica del Vecellio, approfondita e risolta ancor prima del suo soggiorno romano, doveva in effetti concludersi in un’esaltazione eroica dell’individuo in quanto consapevole e attivo protagonista di storia, sebbene sottoposto a un destino anche avverso, impegnato in un suo chiuso e faticoso travaglio. Lungi però dal rinnegare la precedente attività dell’artista, tale atteggiamento ne confermava le essenziali ragioni; giacché neppur ora l’uomo veniva a configurarsi secondo una visione astrattamente antropomorfica, in sé isolato e opposto alla natura, ma piuttosto come il centro stesso della vita del cosmo, in lui rifluente. Di qui la possibilità di conciliare in un personale accordo con le due massime tradizioni figurative del Cinquecento: la veneta, rinnovata da Giorgione, e la fiorentino-romana, e di ristabilire su un piano diverso, di più complessa maturità, quell’equilibrio di senso e di intellettualismo umanistico, di civiltà e di natura, in cui consiste il fondamento perenne dell’arte di Tiziano. G. A. Dell’Acqua, Tiziano, 1955.
La vecchiezza di Tiziano mostra la vitalità di un Michelangelo che invece di ritirarsi dal mondo per darsi a un’ombrosa devozione avesse conquistato la serenità, la universalità di un Raffaello. Le sue ultime creazioni fanno pensare a Shakespeare: un’arte sapiente, cosciente, un po’ esteriore e teatrale, di una superiore impersonalità, s’impregna, finalmente, di una emozione, di un patos personale, di cui il Satiro e la ninfa [Vienna, Accademia], fremente di luci, e la Coronazione di spine [Monaco] sono la toccante espressione. A. chastel, L’arte italiana, II, 1958.
… possiamo dire che questo dipinto di Tiziano {L’Amar sacro e l’Amar profano della Borghese], se certamente non è un ‘mistero’, certamente è una ‘poesia’. La parola è suggerita dallo stesso maestro, che ripetutamente l’adopra, nel suo carteggio, per designare le sue opere di soggetto erotico o mitologico; e va, d’incidenza, notato che i miti classici, nella pittura di Tiziano, sono quasi sempre legati al tema d’amore.
Questa parola ‘poesia’ non è una novità da poco nella terminologia dell’arte figurativa. A Firenze si sarebbe sempre parlato di ‘invenzione’ o di ‘historia’. Se l’opera, d’arte è il prodotto dell’ ‘ingegno’ e il dominio dell’ingegno è la realtà, anche l’invenzione è, propriamente, la scoperta di qualcosa che appartiene già, sia pure come possibile, alla realtà. Perciò ogni rappresentazione è una ‘azione’, ogni azione una ‘storia’. Fuor dell’ingegno, e al suo opposto, non c’è che il capriccio: un fantasticare fuori del verosimile, arbitrario. La ‘poesia’ — come l’intende Tiziano e come l’aveva intesa, in limiti più angusti, Giorgione — non ha minor forza rappresentativa, rispetto alla natura, che la ‘historia’ dei fiorentini. Soltanto che la natura non è più l’oggetto distinto dal soggetto che lo pensa, ma la realtà stessa di cui l’uomo, vivendo, partecipa. Immerso in quella realtà che non s’inquadra più nella struttura di un sistema razionale, ne conosce quanto gli è dato afferrare per la sua interna affinità alla natura, per la risonanza che il suo sentimento umano (ch’è pur sempre un sentimento della natura) trova nelle cose del mondo. Del proprio essere, anzi, egli null’altro potrà mai sapere se non quel tanto che, per quella simpatia o consonanza, trova forma sensibile nella natura: nei cui ‘fenomeni’ egli scopre e conosce ad un tempo se stesso ed il mondo. Questa è la forza evocativa, ‘magica’ del sentimento di Giorgione.
Tuttavia è probabile che molti equivoci a proposito dell’interpretazione dell’Amor sacro e Amor profano dipendano dall’averle voluto situare per forza, a causa del soggetto enigmatico, nell’orbita giorgionesca ; quando invece esso segna il distacco, non soltanto dello stile pittorico, ma della poetica ‘classica’ di Tiziano dalla poetica ‘romantica’ di Giorgione. Qui infatti poesia non è più un penetrare misteriosi veri per le vie celate delle allusioni e dei simboli, ma una piena solare rivelazione della realtà nella ‘bellezza’ della forma. Qui la ‘bellezza’ è già, per se stessa, la rappresentazione allegorica, l’unica possibile della natura; e se l’occulta realtà soltanto nella ‘bellezza’ della forma può manifestarsi nella sua pienezza e universalità di ‘natura’, poesia non è altro che la bellezza o l’eterno mito della natura. G. C. argan, L’Amor sacro e l’Amor profano di Tiziano Vecellio, 1959.
Se oggi riesce difficile riconoscere con il Dolce quanto Tiziano abbia dimostrato al Fondaco dei Tedeschi “di avanzare il maestro”, appena tre anni dopo nei Miracoli di sant’Antonio, affrescati nella Scuola del Santo a Padova, la sua personalità si afferma con piena indipendenza. Profondo ed essenziale è lo stacco non solo dal mondo ‘sublime’, evocato da Giovanni Bellini con religioso fervore in dolci rispondenze di forme e di colori, e dalle favole incantate, vivacissime di colore, che il Carpaccio narrava entro nitidi telai prospettico-spaziali, ma anche dalla umanità liricamente sognata da Giorgione in un’atmosfera di languore sentimentale.
A questa, Tiziano contrappone un dominio vasto e sicuro della realtà, dove trionfa l’uomo con tutta la forza dei suoi sentimenti e delle sue passioni, non più isolato in un individuale incantesimo, ma dialetticamente vivo in umana pienezza di colloquio.
Del resto, sulle pareti della Scuola del Santo, Tiziano non doveva raffigurare, come al Fondaco dei Tedeschi, astnise allegorie, chiare soltanto ad una ristretta cerchia di intellettuali, ma rappresentare alcuni miracoli del popolare santo francescano, a edificazione di pii confratelli e della folla di devoti. Fuori da ogni suggestione iconografica o letteraria, le scene avvincono subito lo spettatore per la perentoria chiarezza delle immagini …
Così i tre miracoli del santo serrano sul filo dei sentimenti umani più vivi e penetranti, e quasi sembrano risolti in scene di vita quotidiana, ma dove il valore episodico è trasfigurato su un piano di ideale nobiltà formale, senza mai colorarsi di oratoria ne tanto meno di sforzato melodramma. Le figure umane dominano grandeggianti il proscenio in agiate rispondenze ritmiche e in larghe distensioni di forme, semplici e naturali; ma a ben guardare sono tutte misurate con controllatissimo rigore logico. Per tale prepotente esaltazione di vita, reale ed irreale insieme, è determinante la funzione assunta dal colore. Giorgione, sfumando dolcemente i toni nella dolce temperie atmosferica, attenuava i valori timbrici in una musicale tessitura cromatica, dando forma unitaria ai suoi sogni di estenuata e lirica poesia: Tiziano, invece, punta sull’armonica e semplificata opposizione di distesi piani colorati, che in una sovrana semplicità di rapporti cromatici risaltano con luminosa opulenza nel dinamico contrasto di chiari e di scuri; e nello spettacolo ancora più vivo, ed intenso della realtà, dove uomo e natura sono celebrati in un canto solenne e unitario di fervida bellezza, veramente classica nella sua ideale incorruttibilità, si palesa poco più che ventenne, creatura del pieno Rinascimento, non menò di Michelangelo e di Raffaello. F. valcanover, Tiziano, 1960.