Citazioni su Francesco Guardi
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Francesco Guardi: la critica di studiosi di Storia dell’arte nel Novecento (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)
Guardi figurista, animatore di folle, realizzatore magico dell’atmosfera veneziana, perennemente mutevole ai giucchi di luce e d’ombra dei riflessi acquei e delle nuvole errabonde, pronto a cogliere le più fuggevoli parvenze ed i più sottili contrasti di toni, narratore arguto, nelle inimitabili macchiette che popolano le sue tele, della vita veneziana settecentesca, fantasioso e romantico (la gondola perduta nelle brume lagunari, del Poldi Pezzoli di Milano, è una concezione demussetiana), è già tutto in questi rapidi, impetuosi, vivacissimi suoi disegni che ora appaiono sviluppati appieno, ora rivestono il carattere di fugaci notazioni, quasi stenografiche, compendiose e lievi. È il suo modo di scrivere pittorico. Là dove altri farebbe, in caratteri ordinari, una notazione di colore o d’una impressione visiva, Francesco Guardi, in punta di penna o di pennello, segna, con più esatta ed efficace rispondenza, quello che la sua retina ha colto ed ha interessato il suo spirito.
Il colorista è già tutto nel disegnatore di questi capricci, di queste impressioni, perché quando il pennello, intriso di seppia o di china, o la penna (assai di rado la matita) fluisce agile e sciolta sulle carte, l’occhio esperto e l’obbedientissima mano segnano, in accordi preziosi, le tonalità più sottili. Dato ciò, possiamo ben comprendere come questo tesoro di disegni guardeschi sia rimasto, se non ignorato, non apprezzato fino a pochi decenni or sono, perché il neo-classicismo, che già muoveva i primi passi quando Guardi scendeva nella tomba, rendeva ciechi e sordi, artisti e pubblico, a tutto quello che non rispondesse appieno ai rigidi postulati formali in cui l’arte si irretì a lungo, ed allora, di necessità, Guardi, così nelle tele, come nei disegni, con la sua sprezzatura impressionistica, abolitrice della forma, doveva apparire un eresiarca. Di qui l’oblio, se non il disprezzo, ammesso che d’un sentimento così forte fosse ritenuto degno.
Anche nei suoi disegni, Guardi è perciò un’apparizione singolare che scarsi contatti presenta con i suoi contemporanei, e, se mai, può suscitare fuggevoli reminiscenze (ma sulle quali non conviene insistere, essendo esclusa quasi certamente la possibilità di un influsso reciproco) con un’altra personalità artistica, unica e sola, dominatrice incontestata dell’età sua, Goya. M. brunetti, Disegni veneziani del ‘700, in “Le Tre Venezie”*, 1929.
II Guardi si trovò avviato ad un manierismo indifferente al contenuto delle opere e tutto orientato verso virtuose trasposizioni e traduzioni nelle quali un disinvolto stilismo si compiaceva del suo fare. Anche con i suoi aspetti brillanti tale stilismo costituiva un sostanziale impoverimento rispetto alla vera arte; questo il Guardi dovette avvertirlo, poiché cercò di dare alla sua pittura un significato integrale, anche restando sul piano di quel gusto rococò del quale egli sentiva particolarmente il fantasioso irrealismo. Così nella pala della Pietà giunse ad una drammatica espressività immedesimata nella tormentata pittura, mentre lo schizzo di San Stanislao Kostka vale come una apparizione di quel Paradiso dorato e musicale che il rococò faceva sognare alla cattolica Europa. Anche le storie sacre e le mitologie venivano acquistando una espressione inferiore nello stesso loro clima fiabesco, non erano soltanto pretesti per un sensuale virtuosismo. Quand’ecco che l’esempio del Canaletto offrì al Guardi la stessa Venezia come oggetto di contemplazione. Seguire veramente tale esempio nelle sue estreme conseguenze avrebbe voluto dire per il Guardi rinnegare se stesso, rinunciare al suo estro fantastico per una serenità impassibile, una lucidezza attonita. Ma egli ne trasse infine ciò che per lui poteva valere, mentre il nuovo orientamento ebbe una importanza decisiva. Se era tanto difficile dare un senso più intcriore al repertorio rococò e una lievità spirituale ai suoi prestigiosi artifici, una materia visiva tanto suggestiva e presente quale poteva essere lo spettacolo di Venezia doveva bene accendere la fantasia del Guardi. Si giunse così ad una sintesi, come sempre misteriosa, tra l’artista e il suo mondo, ad un legame che vale tuttora, perché anche a mente fredda non potremmo pensare il Guardi senza Venezia e neppure Venezia senza il Guardi, se anche le città acquistano nell’arte senso e valore. I risultati di quella sintesi recavano naturalmente l’impronta dell’artista, esprimevano la sua sensibilità improvvisa che dava alle cose un magico colore, un ritmo incorporeo, sia pure danzato.
Ma quando non interveniva un rinnovato stilismo non erano soltanto fantasie rococò, bensì interpretazioni di una realtà intimamente sentita. Mentre la intellettualità nuova guardava il vero con una mentalità oggettivistica destinata a drammatiche contrapposizioni, a sintesi nuove ed altresì a soluzioni disperate, il Guardi rimase d’istinto in un confidente abbandono. Non gli venne in mente di trarre misure e calchi dal vero, il quale diveniva tutt’uno con il sentimento dell’artista e la sua pittorica espressione. Sentimento venato d’irreale fantasia, pronto alle più instabili variazioni delle luci e dei colori in un mondo trepido e oscillante. Ciclo, acqua, riverberi, riflessi, quanto v’era di più indefinibile, creavano una atmosfera alla quale ogni oggetto partecipava. Portate su questo piano, anche le vedute fantastiche avevano un nuovo significato. V. moschini, Francesco Guardi, 1952.
Che il Guardi trasponga il duttile sintetico corsivo canalettiano in una sorta di telegrafia frammentaria o sussultoria non toglie che l’attenzione allo stile dell’ultimo Canaletto vi sia stata, e puntuale, e tutt’altro che marginale, se contrassegnò con tale continuità un numero notevole di opere, nel corso di più che un quinquennio almeno, e di opere che son fra quelle di solito più esaltate come esponenti dell’ ‘impressionismo’ preimpressionista guardesco. Quella dissoluzione del tratto — come riduzione alla propria forma — che conserva viva, però, e palese la traccia della sua partenza grafica, è tanto più significativa in un artista come il Guardi, che non fu grafico ne a quel che si sa si sentì mai attratto dalla grafica, dico dall’incisione, come al limite rappresentativa dell’espressione (così in Giambattista Tiepolo) : fenomeno in sé mai abbastanza segnato come distintivo, per sua parte, della forma del Guardi da quella del Canaletto, ma che può spiegare anche altri passaggi della sua attività artistica. […]
Che anche il Guardi abbia fatto – e molto più la sua bottega operosa – delle concessioni alle esigenze di un pubblico anche allora superficiale e sensuale, che voleva delle cartoline piacevoli e prestigiose;
che non abbiano giovato all’artista i cottimi di una clientela nemmen più esigente, ma francamente prevaricante, come quell’Edwards che i quadri li voleva dipinti alla sua maniera, è indubitabile. Nella sua vasta produzione, nel catalogo opimo assai di ‘vedute’ e di ‘capricci’ che va sotto il suo nome occorrerà pur sempre sceverare : molte le ripetizioni brillanti ma non intense, molti i casi in cui del Guardi v’è lo splendore indistruttibile del colore, il tocco di finltura sempre magico, ma adeguato alla destinazione pratica, non prodotto dalle sorgenti vive e sempre nuove della fantasia. Ho visto tanti quadri […] sicuramente autografi, ma dove c’è soltanto la sua intelligenza e la sua mano, non la sua ispirazione. Il critico che non si identifichi con la funzione export non cercherà a tutti i costi la ‘valorizzazione’, magari inventando alacremente una teoria apposta per adeguare l’artista al particolare prodotto che interessa : affermerà l’autenticità, quando non vi appaia la preparazione di bottega (caso non infrequente), ma non potrà ragguagliare questi prodotti, anche se epidermicamente stupendi, alle creazioni originali. Ma per fortuna anche queste abbondano.
Il Guardi vero – e vale qui la conferma dei suoi disegni schietti – è un artista improvviso e financo un po’ ruvido, non di rado, di una vergine impressione e di un sempre fresco e vitale ricordo, poco curante di squisitezze (anche di cultura, di gusto o di moda), e piuttosto di un raccoglimento denso e anche un po’ schivo, come un marinaio avvezzo ai grandi venti e ai grandi orizzonti. Guardate che cosa ha fatto dell’episodio, dell’aneddoto, della descrizione di costume, della distrazione canalettiano-brustoloniana in un solo particolare, la folla in primo piano del Giovedì grasso in Piazzetta : tutti voltati di dietro, di una vibrazione estetica più profonda e portata al grandioso nella sintesi delle figure assiepate, una semplificazione diretta, breve, senza alcuna perifrasi o fioretto. Momenti di essenzialità come questi segnano subito, senza possibilità di scambi o di equivoci, il suo carattere.
La sorta di eroismo spaziale, che è segnato dalla dominante di un assillo aquilino per larghi confini e per immense e riflesse profondità d’acque e di ciclo, che possono contenere i drammi tutti però portati a un momento solo e sintetico, semplice anche qui; e coi rumori attutiti dalle distanze o dalle gittate dell’aria; drammi muti, quasi. Impervie visioni, dove le ‘macchiette’ non sono aneddoti sapidi, delicati o leggeri, ma sempre ferme quanto improvvise forme luminose che segmentano, moltiplicano, quasi provocano e animatamente spiegano gli spazi tersi e monumentali, con un’ispirazione che non è graziosa o gentile, ma tesa; anche sognante, ma in un sogno assorto e favolosamente solitario.
In questo clima fluisce consentanea quella ‘profondità innocente che abbiamo incontrato, pur se non rasserenata nell’alto equilibrio visionario della maturità, nell’opera giovanile del Guardi, fino alle Allegorie dì Sarasota, e agli altri annunzi delle sue celesti contemplazione. C. L. ragghianti, Epiloghi Guardeschi, 1953.
[…] Come un mediocre artista, quale noi avevamo conosciuto Gianantonio nella pala berlinese e nel disegno veneziano del 1760 , abbia potuto arrivare a questo capolavoro [il ciclo dell’Angelo Raffaele a Venezia], nessuno dei suoi sostenitori è mai riuscito a spiegarlo; che invece questo rientri nell’attività di un pittore della qualità di Francesco, in una sua forma matura, tanti sono gli agganci con la sua visione paesistica, è certamente più accettabile. D’altra parte la stessa personalità artistica di Francesco Guardi si mette a fuoco soltanto nella comprensione di un atteggiamento creativo, che supera le divisioni di genere (‘figurista’, e ‘paesaggista’), passando appunto da un modo espressivo all’altro con piena disinvoltura. […]
Nel pannello centrale, il più alto di tutti per qualità espressiva e per concezione evocativa, Tobiolo e la. sposa Sarà pregano Dio, inginocchiati e lontani dal talamo. L’Angelo Raffaele, che ha scacciato il demonio che uccideva i pretendenti di Sarà prima che le nozze fossero consumate, torna presso gli sposi: i genitori di Sarà invece assistono timorosi alla scena ed han già dato l’ordine che si scavi la fossa. Una coerentissima unità stilistica caratterizza questo pannello : una atmosfera frizzante, che nel centro del dipinto si identifica con lo spazio aperto lontanante, dilaga ai lati, con il ritmo di un allegretto, svaporizzando le forme e la parvenza delle cose, mediante una pennellata che fulminea sovrappone i chiari, per lo più scintillanti, su tonalità di colore più scuro. È una pennellata di qualità essenzialmente cromatica e luminosa : sono tocchi ‘balzellati’, continui ed insistenti, legati per contrasto, che hanno il compito di portare alla sommità delle forme la luminosità più intensa, attraverso valori pittorici dissociati. Osservando questo pannello si ha chiara l’impressione che figure, vasi, architetture, nature morte, elementi paesistici, hanno per l’artista uno stesso valore : cioè divengono semplici occasioni per il realizzarsi di una fantasia evocativa che tutto ricrea in un getto d’ispirazione. Nel brano paesistico di centro si fa strada una concezione che non ha niente a che fare col mondo reale amorosamente colto dal Canaletto, ma che semmai ricorda quello capriccioso vagheggiato da Marco Ricci. In questo senso è uno dei brani liricamente più intensi e nuovi che offra la pittura europea del Settecento. […] Il ciclo dell’Angelo Raffaele realizza una concezione romantica del paesaggio, tendente ad una suggestione evocativa piuttosto che ad una descrizione veristica:
quelle figure attuano le loro avventure romanzesche vivendo in quell’atmosfera, partecipando di quel sentimento che è diffuso nell’aria e nel colore medesimo. R. pallucchini, La pittura veneziana del Settecento, 1960.
[…] E Francesco? […] Cominciò, da giovane, a dipingere vedute e capricci senza seguire il fratello, se non occasionalmente. Ma il suo temperamento era ben diverso. Per comprendere i due fratelli e penetrare profondamente nel loro mondo, occorre anzitutto scoprire le origini di Francesco. Se si continua a sostenere che egli acquista la sua autonomia solo nel 1760, cioè dopo la morte del fratello, essendo stato fino allora costretto a difendere la ‘mediocrità’ di quello, allora rimarremo sempre nell’equivoco. Ma esistono opere giovanili a testimoniare le sue origini e la sua libertà.
Lo dicono le prime cose che gli si possono assegnare, come le vedute di rovine romane riprese da originali di Marco Ricci e la lunetta di Vigo, con la Visione di san Francesco, che ora anche il Fiocco gli riconosce totalmente : e ne sono davvero felice. È, il suo, un modo assai diverso di sentire la pittura : lo si avverte subito. Egli non ama le grandiosità magniloquenti e non crede più alle storie meravigliose : è piuttosto raccolto in sé, pensieroso; e, invece che inseguire con il fratello o il cognato i fasti e le glorie di illustri scomparsi, guarda con occhio attento, acuto, penetrante, quanto gli accade intorno. P zampetti, Mostra dei Guardi, 1965.
I quadri di rovine, le vedute di fantasia, i capricci di Francesco Guardi sono numerosissimi e Dio mi guardi dall’affrontare qui il problema in tutta la sua complessità. Ma questo scrupolo non può tuttavia impedirmi dall’avanzare, cautamente, qualche considerazione. Tutto il gruppo di questi dipinti lega, anzitutto, se non erro, assieme con notevole coerenza. Siamo cioè agli antipodi della pittura leggera, chiara, squillante che si può ritenere tipica, con larga approssimazione, del settimo decennio; il tono è qui decisamente caldo, e nulla, d’altra parte, riporta al calibrato gusto delle composizioni ‘canaiettesche’ degli anni Cinquanta. Le architetture diroccate, fantasticate, dove spesso ricorre l’arco acuto, sono delineate con tinte color bistro, tabacco e spesso illuminate da una luce di tramonto che trae caldi accenti dagli intonaci gialli, rosati, dai vividi, spessi colori che distinguono le macchiette; e sono queste, proprio, le tipiche macchiette del Guardi alle quali si fa, di solito, mentalmente, riferimento : fermamente delineate, bloccate in un contorno del tutto chiuso e condotte con una spessa pasta di colore. […]
Riesce difficile pensare a queste opere, come prodotti della gioventù dell’artista. Se mai, è proprio il contrario che dovremmo pensare, ravvisando in queste tele, anche in quelle di più alta qualità, un frutto della tarda maturità dell’artista che qui, deliberatamente, ripete spessissimo se stesso. Ma, invece, non è esattamente così; quando si pensi (e le prove, con date e documentazioni abbondanti, non permettono a nessuno di dubitarne) che l’arte di Francesco era, nel 1780 circa, ben lungi dall’esaurire la sua carica : l’ultimo decennio della sua attività, fino alla vigilia della morte, è segnato da una visione formale ancora una volta nuovissima, di straordinaria vitalità. E allora? Non esiste un catalogo dei dipinti di vedute di Francesco (parliamo delle tele sicure da tutti a lui riconosciute e non delle copie e delle infinite contraffazioni). Quando esso si farà dubito che il numero dei dipinti di rovine, fantasie architettoniche, capricci sarà molto rilevante, superiore a quello degli altri ‘generi’ da lui coltivati. Non mancano, beninteso, molte opere insigni anche in questo particolare settore, grandi e piccole : e basterà citare i tre capricci già Colloredo, i due capricci di Lord Iliffe, il dipinto della collezione Scotti (già Moroni; e per me di questo tempo), VIsolotto della collezione Borlotti, il capriccio della collezione Cini, le vedute fantastiche della Duchessa di Montellano, le due della raccolta Stramezzi, la Fantasia architettonica e il Cortile di un palazzo alla Carrara, per citare soltanto alcuni, tra i tanti e tanti, di questi dipinti; e a questo tempo tenderei ad assegnare anche le quattro vedute ‘grandi’ dell’Accademia di Vienna. Ma mi sembra evidente, o mi inganno, che la grande quantità dei dipinti di questo tipo denunci una richiesta che esigeva dall’artista una maggiore rapidità di esecuzione e l’obbligava sovente a replicare spunti architettonici, figurine, quando non si trattava addirittura di composizioni intere : e allora dovrebbe apparire, penso, ben chiaro che la macchietta, ad esempio, non più ispirata dall’estro del momento, ma ripetuta tale quale, assumesse alcune sue caratteristiche, nelle sue forme ormai bloccate tra ombra e luce, nella ripetizione di certe tinte e di taluni rapporti cromatici : bellissima certo, quando è veramente sua, ma senza l’imprevisto estro fantastico, la duttilità, la vitalità eccezionale delle folle che animano, ad esempio, le Feste dogali…….. E. Arslan, Considerazopno sul Vedutismo di F. Guardi in “Problemi guardeschi” 1966.