Pietro Cavallini: Il Giudizio universale (in Santa Cecilia)
Sull’opera: “Il Giudizio universale” è un affresco di Cavallini, misura 320 x 400 cm. ed è custodito nella Basilica di Santa Cecilia a Roma.
Il grande ciclo pittorico del Cavallini si trova raffigurato nella parete di controfacciata all’ingresso della celebre Basilica.
“Il Giudizio universale” fu in parte ricoperto nel Cinquecento per la costruzione del coro delle monache. Rimase scoperta la figura della Vergine che, secondo pie testimonianze, allontanava – come per miracolo – qualsiasi mobile, ogni qual volta che si tentava di ricoprirla. Le raffigurazioni della navata laterale rimasero invece piuttosto mal conservate e furono soggette a seri danneggiamenti, nel 1599, per la realizzazione alcune finestre della navata principale e, quindi, totalmente occultate nel 1725, quando il cardinale Acquaviva vi fece costruire un nuovo soffitto per rimodernare le stesse finestre.
L’affresco rimase coperto dietro il coro delle monache fino al 1900, quando l’Hermanin, fisicamente presente per caso alla demolizione dello stesso coro, ebbe per primo la fortuna di scoprirlo. Si iniziò subito con una una vasta ripulitura e con un accurato procedimento conservativo, eseguito dal Bortolucci, sotto la supervisione dello stesso Hlermanin.
L’affresco risulta mutilato non solo nella zona bassa, dove mancano i proseguimenti di alcune figure, ma è anche e soprattutto privo di una terza fascia nella parte alta con raffigurazione del “Cristo risorto” (per alcuni studiosi, l’ “Eterno”) con le schiere degli angeli.
Nel 1917, il Wilpert (fonte: Die romischen Mosaiken und Malereien der kirchlichen Bauten vom IV bis XIII Jahrhundert, 1917) fece configurare una ricostruzione fotografica più o meno attendibile del grande ciclo pittorico basandosi, sulla fascia superiore, all’iconografia tradizionale del dopo Cavallini, assai vicina Giudizio universale di Giotto e di quello – e ancor più prossimo all’artista – della controfacciata della Santa Maria Donnaregina a Napoli.
Se nei mosaici raffigurati nelle precedenti pagine (la “Natività di Cristo”, la “Natività della Vergine” e l’ “Annunciazione”) affiorano già consistenti novità, sia in relazione alla profondità prospettica che ad una raffigurazione più plastica ed umanistica delle immagini, in questo “Giudizio universale” il messaggio del Cavallini diventa ancor più sfaccettato, concretandosi verso una forma più articolata e certamente più completa: un ruolo di svolta epocale nella pittura del tardo Medioevo.
È il grande affresco del Cavallini che suggerirà a Giotto importantissimi spunti per il suo nuovo stile. In relazione al puro impianto strutturale, il Giudizio in esame contiene diverse innovazioni che meritano di essere evidenziate, confrontandole con i due antecedenti “Giudizi universali”: quello veneto-bizantino del duomo di Torcello e quello campano-bizantino sulla controfacciata della chiesa di Sant’Angelo in Formis (Capua). Da sottolineare innanzitutto che nel presente affresco le fasce sono disposte orizzontalmente come pure le stesse figure, la cui collocazione è ritmata da vasti intervalli seguendo un binario altrettanto parallelo invece di essere ammassate, contribuendo così a conferire a tutto il contesto un’atmosfera di pace e tranquillità e, quindi, a ben equilibrare il discorso figurativo. Collocato nella fascia principale, il Cristo è posto sullo stesso piano prospettico di tutte le altre figure: non in alto e, quindi, non separato dagli altri protagonisti come nei precedenti Giudizi. Egli non funge più da “motore immobile” ma compartecipa – seppur con più vivo e profondo sguardo e con più dinamica espressività – al generale contesto, privo dell’imponente soprannaturalità nei confronti degli uomini a cui si rivolge: a tutta l’umanità, e non più quel distaccato “pensiero pensante” delle figurazioni bizantine. Egli è attorniato da una schiera di angeli, arcangeli, serafini e cherubini, disposti a corona. Gli angeli – di cui ne rimane solo uno – e gli arcangeli indossano vesti di estremo candore, mentre i cherubini portano tuniche dal colore bianco-perlaceo, fasciati – come gli arcangeli – con palli verdi colmi di gemme. I serafini sono collocati invece nella zona alta con i visi che emergono dagli strati di grandissime ali, brillanti dal caldo cromatismo tendente al turchino, al marrone e al rosso acceso. Ai lati della Vergine e di san Giovanni Battista, stanno – disposti in corteo – gli apostoli, tutti configurati in simili atteggiamenti ma diversi l’uno dall’altro per lievi differenze di espressione e per altrettanto leggerissimi motivi compositivi. Ogni loro figura – in particolare il volto – ha un’impronta di alta umanità e, nonostante la carica di naturalismo, ostentano un più articolato realismo spirituale. Attratta dalla viva forza e dalle numerose valenze che informano il personaggio del Cristo, ogni figura allude alle molteplici ragioni della propria essenza il cui moto inferiore viene minimamente accennato, dal momento che non si tratta di semplici ed umane passioni, ma principalmente di fenomeni etici.
Vi si respira quindi un’atmosfera di classica tranquillità, in cui si può unita leggere un altissimo richiamo etico-religioso. Anche la strutturazione delle figure risulta classica: i volti, dalle fattezze accuratamente levigate e dalle umane espressioni, hanno maggiore rotondità e sono più luminosi, privi cioè dei modi bizantini. Il panneggio ha una stesura vasta e decisa, scavato e ricco di ombreggiature. Il cromatismo non si scosta da quello dei mosaici di Santa Maria in Trastevere (pagine precedenti), ma qui è, grazie alla tecnica dell’affresco, è più pastoso e più deciso e scorrevole anche nei punti di fusione.
Per quanto riguarda l’autografia del Cavallini, secondo gli studiosi, il Giudizio in esame non è da attribuire totalmente all’artista: lo Hermanin (1902) fu il primo ad avanzare dubbi sulla completa assegnazione e le sue ipotesi furono sostenute anche da altri celebri esperti in tempi più recenti. Lo studioso ipotizzava che i tre angeli alla sinistra del Cristo (a destra per chi osserva) risultano ugualmente strutturati nella forma ma diversi nell’armonizzazione cromatica da quelli che stanno all’atro lato, e li considerò quindi “disegnati dal Cavallini e dipinti da un suo allievo”. Mise in evidenza anche la debolezza cromatica delle figure dei beati, mentre per i reprobi pensò che essi nonostante esser “rappresentati in proporzioni molto minori che non i beati, s’accostano di più al fare del maestro” e scartò anche dalle zone attribuite alla scuola i quattro angeli tubicini. È, per l’appunto, nella fascia in basso che più di ogni altra isolata zona si manifesta l’intervento di collaboratori, alquanto difficile da identificare, che non possono in ogni caso essere esclusi dallo stile assisiate ed elienistico-romano. Sempre nella fascia bassa, sono da riferire al maestro anzitutto la struttura compositiva dell’insieme, e in secondo luogo altre isolate parti, tra quali gli angeli tubicini, i cui panneggi hanno il tipico timbro del Cavallini e, inoltre, i dannati dai quali meglio emerge l’influsso rispetto a quello classico-romano della fascia alta.
Nella seconda metà del secolo scorso, dopo un accurato esame (Sindona, “A” 1969) della presente opera venne pubblicato il relativo rapporto dell’Istituto Centrale del Restauro nel quale si sottolineava che: ‘”All’esterno il muro è interamente esposto ad ogni variazione atmosferica. Mostra segni di movimenti di assestamento avvenuti a più riprese attraverso i secoli. Detti movimenti interessano l’affresco con crepe e spostamenti nel senso dello spessore che hanno causato sull’intonaco numerosi ingobbimenti rotondeggianti. L’aspetto attuale dell’affresco colpisce immediatamente per lo stato di abbandono e decadimento. Grosse lacune si sviluppano per lo più in senso orizzontale, riempite con una malta molto compatta e tinte con un tono grigio-nero. Il colore è inoltre offuscato da una stratificazione uniforme di polvere e grasso. ( …… ) Dalle finestre alcune crepe, formate in tempi relativamente recenti poiché attraversano anche le stuccature eseguite dopo il terremoto del 1914, scendono verticalmente per tutta l’altezza del dipinto e provocano dissestamenti localizzati dell’intonaco. Ma il pericolo principale è determinato dal tatto che lungo le crepe si notano chiarissimi segni di umidità in atto” (E. Pagliani).
Il Giudizio universale fu restituito al suo originale splendore con il restauro eseguito nel 1980 da Carlo Giantomassi sotto la supervisione dell’architetto Bernardo Meli
Particolari delle varie figure: