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Quello che ha detto la critica ufficiale della Storia dell’arte di Annibale Carracci
Heinrich Wölfflin, Renaissance und Barock, 1888
Come è caratteristica la trasformazione degli Schiavi michelangioleschi della Cappella Sistina nelle figure equivalenti della Galleria Farnese, composte dai Caracci! Quale turbolenza, quali contorsioni delle membra!
Tutti i movimenti spontanei diventano più faticosi, più pesanti, e richiedono uno sforzo eccezionale.
Le singole membra non agiscono liberamente, ma in parte attraggono nel loro movimento il resto del corpo.
D’altra parte la passione esagerata fino all’estremo limite, fino all’estasi e ad un furioso trasporto non può trovare una espressione omogenea in tutto il corpo: il sentimento si scarica violen-temente ed impetuosamente in singoli organi, mentre il resto del corpo rimane dominato soltanto dalla pesantezza.
Ma al grande sforzo non corrisponde nel complesso una più forte struttura del corpo; anzi! L’azione degli organi motori spontanei è deficiente, gli impulsi dello spirito dominano troppo debolmente il corpo.
I due momenti: corpo e volontà si sono, per modo di dire, divisi, È come se questa gente non avesse più in suo dominio il proprio corpo, come se non potesse più trasfondergli la propria volontà; mancano l’animazione e la conformazione equamente distribuite.
Stati di dissolvimento, di molli adagiamenti, di abbandono informe, accompagnati da movimenti veementi di singole parti del corpo, diventano sempre più i soli ideali dell’arte.
Aldo Foratti; I Carraccinella teoria e nella pratica, 1913
I Carracci sono i primi a pensare chiaramente il paese come un soggetto a sé; lo sfondo verde s’avvicina, comincia ne’ primi piani del quadro, e le figure, destinate a scomparire, si rimpiccioliscono, diventano macchiette, elementi decorativi che rompono la massa de’ verdi digradati, o squarciano con le glorie angeliche i cieli argentati di nubi.
Annibale sapeva cogliere, anche nel diporto, le forme più eccentriche dell’umanità: la sua continua arguzia non era verbale ma lineare, e i ricordi in matita, fatti per giuoco, le faccie caricate degli amici e de’ conoscenti destarono ben presto il riso e l’impermalimento di molti.
G. Rouchès, La peinture bolonaise a la fin du XVIe siede (1575-1619) : Les Carioche, 1913
Scompaiono così, per una singolare coincidenza, all’incirca nello stesso momento, i due rappresentanti più interessanti della pittura italiana all’inizio del Seicento, i due che più avevano operato per il rinnovamento di quest’arte. Il Caravaggio e Annibale Carracci, i cui sforzi sembrano in contrasto fra loro, hanno seguito, se non la stessa strada, almeno vie parallele.
Ambedue hanno contribuito in modi differenti a rigenerare l’arte, liberandola dall’enfasi e dall’ampollosità dei manieristi, gli immediati predecessori. Per quanto poco stimati siano oggi tali pittori, si deve comunque riconoscere che le loro opere costituiscono un progresso enorme in confronto alla produzione di artisti quali il Vasari e lo Zuccaro.
Li avvicina la comune tendenza verso la verità, poiché Annibale Carracci […] può essere definito un realista a buon diritto quanto il Caravaggio. Anche nelle opere in cui più grande spazio è dato alla fantasia e all’immaginazione (si allude soprattutto alla Galleria Farnese), Annibale mostra di comprendere la natura nei suoi effetti esteriori: è un paesaggista e, quando capita, un animalista. Sa stabilire il giusto rapporto fra le azioni dei suoi personaggi e il mondo che li circonda; nell’espressione dei suoi eroi si rivela psicologo più profondo di quel che si potrebbe immaginare.
Herman Voss, Die Molerei des Barock in Rom, 1924
Già nel XVII secolo Annibale Carracci veniva considerato il grande riformatore della pittura italiana; e dal Baglione, il suo più antico biografo, fin verso il 1800, è possibile constatare un accrescimento costante della sua fama. Scrivere di lui e dei suoi seguaci significa press’a poco scrivere la storia dell’intera pittura italiana dal 1600 al 1800, afferma il Lanzi non senza esagerazione.
La storiografia più recente ha invece manifestato nei confronti dell’arte di Annibale un atteggiamento di ostilità o per lo meno di freddezza, basandosi più sulla critica dei presunti presupposti teorici della sua creazione che sulla considerazione spassionata della sua opera. Parole come ‘eclettismo’, ‘accademia’ e simili, impiegate e interpretate nell’accezione corrente, hanno rappresentato dei perniciosi ostacoli sulla via di una valutazione scevra di pregiudizi.
Ciò che oggi resta da fare a questo proposito è muovere esclusivamente dalle opere e non dai precetti che si è detto vi fossero alla base. Più dei maestri del Quattrocento, Annibale è divenuto ciò che è grazie all’eredità di una tradizione — o, meglio, grazie alla sintesi di diverse tradizioni ereditarie —, e la sua arte, a confronto con la semplicità, appare quindi complessa, di effetto meno immediato.
Carlo Ludovico Ragghianti, I Carracci e la critica d’arte nell’età barocca, in ‘La Critica” 1933
Annibale Carracci, più facinoroso ed esuberante, è anche stato dei tre il temperamento più curioso, che ha avuto più larghezza di interessi, se pure li ha sentiti talora con poca intensità e si è lasciato andare soverchiamente dietro ad esigenze estrinseche: espressionismo, decorativi-*mo, servilità agli scopi di politica religiosa e di edonismo pratico.
Ma poiché è stato il più reputato e il più seguito, e il maggior responsabile delia tradizione dei gusti che per la Accademia bolognese furono tramandati, gli va dedicato un maggiore spazio. Sentì e rese con sufficiente aderenza il gusto veneto. […]
Il gusto per Raffaello impera nei freschi di palazzo Farnese e in numerose altre opere, mescolato a motivi di interpretazione michelangiolesca (nudi e schiavi) e anche a qualche attenzione per i manieristi migliori, come il Rosso : qui viene molto apprezzato anche il sistema di coordinazione compositiva raffaellesco, mentre in altre opere, specialmente pale d’altare, si trova molto ben compresa la composizione veneta, ottenuta per linee direttive diagonali svolte in continuità, e senza centro di raccordo (specialmente Tiziano, meno Tintoretto).
Max friedlander, Mannerism and (…..) 1928-29 (1957)
D’altra parte l’arte di […] Annibale è di importanza decisiva ai fini dell’adattamento di temi trascendenti al nuovo spirito misurato e controllato. A confronto con Ludovico, colpisce nell’opera di Annibale la maggior compattezza dei suoi elementi, la magistrale eppur sottile padronanza del chiaroscuro e la resa canonica (e da ultimo volutamente classica) della massa corporea e dell’atteggiamento fisico.
I rapporti con il Correggio sono innegabili, specie nei primi anni, ma non così determinanti come è stato affermato. Il fuso registro cromatico del Correggio, l’eleganza del Parmigianino, hanno ceduto il passo nell’opera di Annibale a una concezione ben più robusta, e le sue armonie tonali risultano incredibilmente calde e sature.
Roberto Longhi, Momenti della pittura bolognese 1935
Venuto a Roma, in un ambiente più liberale e sfogato, e, dopo i primi contatti, chissà quanto commossi, con i frammenti della vera antichità, subito adibito ad un soggetto squisitamente antichizzante, la vòlta farnesiana, il suo atteggiamento non muta; anche l’arte antica è reimmaginata per via di affettuosa verisimiglianza, non per via metodica.
Invece di restituire, come avrebbe fatto più tardi il neoclassico Mengs, una decorazione arieggiarne l’antico (e non gli mancavano certo i modelli), Annibale immagina, per forza d’illusione, sulle favole antiche questa favola « lombarda »: che, cioè, un dotto cardinale collezionista abbia, nel cielo aperto di un suo portico luminosissimo, issato certi termini classici che van sostenendo cammei giganti e antichi affreschi di soggetto erotico; di modo che su tutti cedesti frammenti, su codesta aerea Galleria d’arte del passato, trascorre e si proietta la luce liquida e bionda di un autunno romano del primo Seicento; e con quel suo diffondersi di sottinsù, ridona un senso di presenza inquieta, un che di momentaneo alle membra marmate dei termini che van reggendo, patetici, i frammenti di un mondo per sempre irrestituibile.
E non è detto che questa, di immaginare per affettuosa verisimiglianza e poi di immergere nella luce moderna, fosse la peggior via d’intendere e di raffigurarsi qualche cosa dell’antico. Ecco perché ci sembra ormai insopportabile condizione l’odierna, in cui i cugini francesi trattan di greco antico, sic et simpliciter, il loro Poussin, pretta creatura dei bolognesi, e noi sembriamo persino esserci scordati di poter chiamare appropriatamente latini Annibale e, dopo di lui (genus unde latinum), almeno il Domenichino e l’Albani.
Rudolf Wittkower, Thè Drawings of the Carracci in the Collectìon of Her Majesty the Queen at Windsor Castle, 1952
Dal 1585 circa in avanti noi possiamo seguire grado a grado la sua evoluzione verso un grande stile monumentale. Chiamato a Roma dal cardinale Odoardo Farnese per lavorare nel suo palazzo, divenne il creatore di una ‘grande maniera’, di uno stile drammatico, sostenuto dallo studio attento dell’antichità e della natura, uno stile in cui egli ottenne un equilibrio tra la tradizione romana della forma compatta da un lato, e il colore veneto e lo ‘sfumato’ correggesco dall’altro; tra lo studio scientifico dell’espressione e del movimento, e l’emozione individuale. Tale stile conteneva i germi sia del Barocco sia delle correnti classiche del Seicento.
Denis Mahon, 1953
Posso forse concludere ribadendo che non sto avanzando smodate pretese a favore della statura artistica dei Carracci; sto solo chiedendo che le loro opere vengano guardate – e godute! – con occhi nuovi e nel loro effettivo valore, senza preconcetti.
E mentre mi sembra sufficientemente ovvio che Annibale (se anche non fu un genio supremo) produsse una buona quantità di opere davvero grandi, e dimostrò nella sua magistrale Galleria che un’opera monumentale di vaste proporzioni può essere accuratamente pianificata e ciò nonostante non perdere in vitalità e intensità, non può esservi dubbio, per esempio, che la sua infermità inficiò per parecchi anni la qualità della sua arte.
Francesco Arcangeli, Sugli inizi dei Carracci, in “Paragone”, 1956
Quanto ad Annibale egli fu, ai suoi tempi, il maggior riformatore d’una tradizione, che per brevità chiameremo classica, o umanistica, di grandezza e di felicità umana; temperamento di popolano a mezza via tra la rievocazione spirituale di quel mondo che non era il suo, e un principio di corruzione ‘alessandrina’, che forse gli faceva credere che nella sfera dei potenti fosse ancora il buono e il vero; ma talvolta, soltanto, che nelle loro favole mitologiche fosse ancora il pretesto a un diletto profondamente, dolcemente edonistico.
Era questa scelta a dettargli l’opinione riportata dal Malvasia: ‘Forzato pure a dire il suo parere sopra una Giuditta del Caravaggio, non so dir altro, rispose, se non che ella è troppo naturale’. In quella parola, ‘forzato’, potrebbe suonare un imbarazzo, una nostalgia per i suoi primi anni bolognesi.