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Citazioni e critica su Carpaccio

Citazioni e critica su Carpaccio (citazioni tratte dai “Classici dell’Arte”, Rizzoli Editore)

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Carpaccio: L’incontro dei fidanzati in pellegrinaggio, cm. 280 x 611, anno 1495. Appartenente al Ciclo di Sant’Orsola, Gallerie dell’Accademia di Venezia.

Quello che ha detto la critica ufficiale della Storia dell’arte di Carpaccio

John Ruskin, Guide To the Principal Pictures in the Accademy … at Venice … 1877

Entrando [a San Giorgio degli Schiavoni], ci troviamo in una piccola stanza la quale ha all’incirca le dimensioni del salotto comune d’una locanda inglese all’uso antico; forse n’è un po’ più alto il soffitto, di buone travi orizzontali, strette e numerose, per dare un’impressione di ricchezza. …

Prendete un binocolo, e guardate fisso ed a lungo i due principi, che vengono cavalcando, a sinistra — il re saraceno, con l’alto turbante bianco, e la figlia, dietro a lui, con la rossa acconciatura, alta come la torre d’un castello. Guardateli bene, e a lungo. Perché, in verità, e ve lo dico con la sicura e ben guadagnata cognizione in materia, in tutto questo nostro globo, cercando quanto di più splendido la migliore sua vita abbia prodotto, in tutti i tempi e in tutti gli anni, non troverete altro che veramente s’eguagli a questo piccolo lavoro, per la suprema, serena, sincera, sicura dolcezza della perfetta arte pittorica.

Nella sua semplicità, si eleva al di sopra d’ogni altra cosa preziosa, tra quante io ne conosca, perché riunisce la perfetta gioia della prima infanzia con la perfetta gioia dell’età cadente, e, insieme, la forza e lo splendore dell’età virile. In varia misura, quest’è, in vero, pregio comune a tutta l’opera del Carpaccio ed alla mente sua; ma qui lo vedete in un vero gioiello, raggiante, inestimabile.

Bernard Berenson, The Venetian Painters of the Renaissance, 1894

Per quanto Carpaccio amasse motivi di cerimonia, non gli piaceva meno dipingere episodi casalinghi. … La qualità del Carpaccio è di pittore di genere; in questo, e in ordine di tempo, egli fu il primo italiano. Il suo genere differisce dall’olandese e dal francese, nel grado oltre che nella specie. Il genere olandese è assai più democratico, e come pittura è di qualità tanto più raffinata; ma interpreta il soggetto, come fa appunto il Carpaccio, in vista delle possibilità pittoriche e degli effetti di chiaroscuro e colore.

Gabriele D’Annunzio, il fuoco, 1898

Ah, in che puro e poetico sonno posa la vergine Orsola sul suo letto immacolato! Il più benigno dei silenzi tiene la stanza solitaria ove sembra che le pie labbra della dormiente disegnino la consuetudine della preghiera. Per le porte e per le finestre dischiuse penetra la timida luce dell’alba, e illustra la parola scritta nell’angolo dell’origliere. Infantia è la parola semplice, che diffonde intorno al capo della vergine una freschezza simile a quella del mattino : Infantia. Dorme la vergine, già fidanzata al principe pagano e promessa al martirio. Non è ella forse, casta, ingenua e fervente, non è ella l’imma­gine dell’Arte quale la videro i precursori con la sincerità dei loro occhi puerili?

Gustav LudwigPompeo Gherardo Molmenti, Vittore Carpaccio, 1910

In Carpaccio, l’osservazione esatta della natura si unisce a una poetica ispirazione religiosa, e anche in mezzo ai trionfi del Rinascimento, rappresentati nelle sue opere, si trova come una lontana eco del Medioevo. Dalla soglia della chiesa, guarda le pompe del mondo; il desiderio e la preghiera, l’amore mistico e il fremito dei sensi, le serene fantasie dell’antichità rinascente e le visioni dei Vangeli, le immagini pagane e i sentimenti cristiani si uniscono con lui in una ineffabile armonia.

Da tale armonioso accordo di reale e ideale deriva quella delicatezza di forma, che cercheremmo invano presso i titani dell’arte veneziana … L’artista è ingenuo e vero, candido e potente, e a studiare con amore le sue opere si finisce per trovare appena eccessivo il giudizio di chi vedeva in lui la purezza e la grazia seducente di Raffaello, unita a questo colore veneziano che nessun’altra scuola ha potuto mai uguagliare.

Adolfo Venturi, Storia dell’arte italiana, 1915

Nella camera altissima [nel Sogno di sant’Orsola], illuminata dalle finestre bifore, con porte su cui statuette pagane contrastano col secchiello dell’acqua santa pendente presso il letto e con la mobiglia da bambola, stanno un trespolo, un tavolino, una credenza con libri ed altro; tutto ciò pure in contrasto con le proporzioni dei vasi sulla finestra e del letto.

È uno squilibrio delle cose corte con le lunghe, dei ninnoli con l’ambiente sperticato, assai maggiore nella pittura di quel che fosse nel disegno della stanza ideata di dimensioni più larghe che alte. Il pittore trasportò il disegno sopra altra scala; e nonostante i disaccordi di linee e di forme, l’allungamento a cui furono tirate nel telero, par che tutto, assottigliandosi, scompaia nella grande stanza, ove dolcemente respira nel sonno la Vergine pura, nel letto ordinato, sotto le ben composte coltri.

Ancora acconciata con le trecce a duplice corona sul capo, coi brevi riccioli che sfiorano la fronte, con le labbra inarcate, Orsola posa la guancia sulla mano, come in ascolto dei sogni. L’angiolo diritto, immobile fantasma, entrato nella stanza per recarle la palma di martire, quasi non si scorge; solo lei, la giovanotta, nel chiaror delle coltri, vive, respira, raggia di candore.

Giuseppe Fiocco, Carpaccio, 1931

Spalancando le porte della sua pittura, ci è parso di aver ventilato anche le infinite curiosità della sua vita, avvolta dal mistero, di aver colto meglio lo sfavillio del suo inimitabile colore, la umanità perspicace delle sue scene, fatte di scienza, ma anche più di simpatia e di passione.

Dall’esotico, dall’impreveduto, il passo al sogno è breve, e Vittore Carpaccio fu uno dei pochi che lo compì, come dietro a lui Giorgione, per fissare, nelle sue musiche di colori e forme, nei suoi ariosi tonali, un poco di quel panico georgico che i grandi sanno cogliere dalla natura, e un poco di quell’immenso mistero che l’uomo chiude nel cuore, non meno procelloso dei mari che il pittore aveva tanto amato e tanto percorso. Il regno di quella Serenissima, figlia meravigliosa dell’Oriente e dell’Occidente, di cui fu il poeta primo, con lo stesso inconscio fervore con cui Francesco Guardi doveva esserne l’ultimo. A commento di una grandezza che il tempo ha spento, ma che l’arte eterna.

Lamberto Vitali, Carpaccio 1935

Carpaccio fa gruppo con i pittori delle storie, ma quello che negli altri resta cronaca, talvolta mirabilmente raccontata, in lui assume valore quasi di mito. In tal modo ha da essere inteso il suo legame con il Mansueti e con il Diana, alleanza che non tocca l’essenza dell’arte, ma consiste sostanzialmente in una comunanza di temi e di lavoro. Del pari il problema della luce, che nelle Storie di sant’Orsola assume già importanza capitale e nei disegni si risolve spesso in un procedere per segni leggeri e rotti, quasi impressionistici, non è neppure sentito dai compagni : Carpaccio è innanzi a loro di decenni. Come in tutti i maestri la sua arte nasce per virtù intima, non per influssi esterni ed accidentali, che possono sì modificare il corso ma non toccare la sostanza.

Carlo Ludovico Ragghianti, Due disegni del Carpaccio, in “Critica d’arte”, 1936

Per il Carpaccio il liberarsi e il tenersi lontano da ogni ricerca di forte impegno intellettualistico facilitò se non condizionò la sua concentrazione su quei problemi che danno più specifica figura alla sua originalità formale. Fissata in poche, larghe oscillazioni andamentali, in pacati organismi o collegamenti ritmici che non avevan bisogno di scordare le individue maestà iconiche dei polittici, la tematica connettiva fondamen­tale dei suoi lavori, la sua fantasia pare si desse intera, con ardita simpatia, a individuare come in una crescente, magica avventura la enorme particolarità di vita figurale che fiorisce con un accento così investente, con una forza così attrattiva nelle sue tele, talché sembra che l’artista abbia dato voce di richiamo a tutte le fisiche apparenze dell’universo.

Roberto Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, 1946

E il San Giorgio? Ad onta di malori innumerevoli rimane ancora un quadro supremo; non però di piana decifrazione. Che mai, infatti, di questa inscenatura arcaicamente profilata e stemmata che, in apparenza, vuoi riportarsi ai vecchi esemplari di cinquant’anni prima, ai cassoni di Paolo Uccello?

Solo chi conosca bene il Carpaccio sciolto e profondo può annuire all’astuzia culturale che qui evoca, attraverso la più vecchia ed araldica iconografia, l’antichità della favola cavalleresca, come dicendo: “questa tappa ha da essere all’insegna del «S’ara Giorgio”.

Creò così, tra drago e cavaliere astato, questa specie di immane rosta in ferro battuto alla ribalta del quadro; al di là però, eccolo esplorare a fondo, fino all’orizzonte, il vasto palcoscenico naturale che gli è caro; prima il terreno stregato dove la morte espone lucida tra i ramarri, le botte e i fili d’erba avvelenati, i suoi vari “memento”: le collezioni di teschi, il braccio che fu elegante, il lurido frammento di un eroe sfortunato,

Sempre dallo stesso libro del Longhi

I resti della donzella dove la camiciola smangiata sul petto integro, la mezza manica sul braccio che riposa, il torso sfibrato come una corteccia dolce da masticare, si compongono nei segni di un affetto supremo; più lontano, i palmizi che sfilano lungo la città balconata donde gli abitanti, minutissimi, guardano alla rovescia il nostro stesso spettacolo; più in fondo ancora, sotto il cielo imbrattato di nubi, l’orizzonte marino con il veliero che s’incanta stupefatto sotto la rupe sforata.

Da questa continua concordia proporzionale, da questa dosatura instancabile di forme colorate entro un’inaudita lucidezza spaziale, viene l’incantamento della narrativa carpaccesca. Ma la persuasione ultima per lo spettatore non sarebbe senza la continua geniale denunzia dell’ombra. Meridiane al sole cadente sono i teleri del Carpaccio, dove ogni cosa : dall’uomo alla calza appesa, al filo d’erba stenta, al gigaro gigante, alla banderuola che sbatte, al minareto, alle colorate architetture degli amici Coducci e Lombardi, tutto protende la sua ombra più lunga per più sicura riprova.

Vittorio Moschini, Carpaccio. La leggenda di Sant’Orsola, 1948

Carpaccio sentiva la natura di una complessa espressione, densa perfino di allusioni morali, mentre per il vero pittore di genere oltre la natura nulla vi può essere e la stessa vita umana v’è inclusa. La vecchia nutrice che assiste al colloquio d’Orsola col padre non è soltanto la serva di casa in qualsiasi interno ma piuttosto la fede! custode di un’intimità domestica; di un dolce legame che le vicende stanno per spezzare. Il particolare dello scrivano e del galante dettatore è soffuso di una grazia fantastica che non è solo quella di un episodio generico, mentre il viso del giovinetto assorto sembra sfiorato dai sogni della leggenda. Passano quei sogni nei cieli, ne sono irradiate le città splendenti, le distese marine, e senza contrasti il popolo eletto di Venezia assiste al congedo del principe biondo della fiaba.

E la linda cameretta della fanciulla che dorme non esprime forse nelle sue stesse cose una serenità innocente che la fa degna d’essere visitata dall’Angelo all’apparire del giorno? Poiché il racconto, i personaggi, le scene esprimono tutti, in quella miracolosa pittura, la unitaria vena fantastica del Maestro. Il Carpaccio se non è per noi un ispirato profeta, ne un curioso naturalista, può apparirci con una interiore religiosità che non ha tuttavia nulla di astratto e di trascendente … Il tono narrativo delle sue opere, più che ad una medioevale vita dei santi ci accosta alla novellistica della Rinascenza, è presente il calore sentimentale dominante in terra veneta e il descrivere diviene un conoscere, ben più che per un toscano.

Luigi Coletti, Pittura veneta del Quattrocento, 1953

Temperamento festevole quanto quello di Gentile era severo, tenero quanto quegli era aspro, Vettor Carpaccio raccoglie dalla realtà esterna, quasi scremandola dei suoi aspetti più prelibati, un tesoro di sensazioni; s’innamora perdutamente della vicenda perenne delle cose, fonte inesauribile di motivi; s’inebria nella scoperta delle minuzie più particolari. Una folla di immagini; fra le quali appaiono ad ora ad ora motivi esotici di plaghe remote, specialmente di quelle di più attraente mistero, il Settentrione e l’Oriente.

E su questo scenario portentoso i personaggi intrecciano le loro storie in un dolce e quieto incantesimo: tardi, svagati, trasognati, come eternamente cullati dal lentissimo dondolio di un sensuoso assaporamento della realtà, quell’accarezzamento del visibile, si trasfigura in un abbandono al gusto del novellare, del raccontare, del favoleggiare. E la ricchezza infinita degli aspetti tesoreggiati nella fantasia diventa “Stimmung”, si carica di “stato d’animo”, vibra di tonalità sentimentale, si scioglie in una melodia soavemente patetica.

T. Pignatti, Carpaccio 1955

lo stile del Carpaccio rimane dal principio alla fine coerente a se stesso … Il suo linguaggio figurativo si trova subito al di fuori della tradizione veneta, basandosi su una accentuazione di fatti prospettici quasi pierfrancescana, mediata piuttosto dai lucidi ferraresi, che non dal nordico Antonello.

Per quella via, quasi indipendentemente da Giovanni Bellini (che punta subito alla valorizzazione degli effetti sensuali del colore, con tipico significato pre-cinquecentesco), il Carpaccio si conquista una eccezionale libertà espressiva, inserendo i suoi giochi coloristici nel telaio prospettico delle luci e delle atmosfere. Così il suo occhio attentissimo tende a fermarsi su una magica figurazione di simboli, entro la fascinosa descrizione degli ambienti reali.

I risultati più maturi lo avvicinano al tonalismo giorgionesco. Ma in fondo la caratteristica della sua pittura rimane quella base lucidamente razionale, per cui la natura appare sempre frenata e condotta- entro i limiti di un mondo più da architetto che da lirico cantore delle cose. Di qui il suo in canto : nell’equilibrio raggiunto, tra una fantasticità calcolata e una realtà plausibile; sicché la natura prende nelle sue tele lo struggente aspetto del sogno, mentre il volo della fantasia ritorna, rinnovandole in una loro vita simbolica, dentro le cose trasfigurate.

Giuseppe Fiocco, Carpaccio, 1958

il Carpaccio fu uomo senza retorica, stupendamente empirico e per questo poco adatto alla pittura di pale, che costrusse con fatica, e limò sino all’incredibile; mancandogli ivi quell’abbandono che letifica le sue narrazioni, le sue favole e le sue leggende, non si vuoi dire sia da meno di Giambellino, che nelle pale si esprime tanto felicemente.

Ciò deriva dalla diffidenza per ogni intellettualismo, che lo toglieva da schemi i quali non fossero suggeriti da eccitamenti visivi. Per questo la sua musa pittorica realizza più di ogni altra i suggerimenti di Antonello, sviluppatesi nel clima fiammingo e non in quello toscano.

Nelle sue famose sequenze non c’è residuo formale, che viva in sé e per sé; quello che troviamo invece dietro ad ogni composizione di Giambellino, per altro verso tanto sensitivo, ed anche per i sotterranei suggerimenti mantegneschi tanto vibrante. Ecco quindi che … tutta la felicissima opera grafica del Carpaccio è un susseguirsi di capolavori conseguenti alle opere d’arte; trepidi, luminosi, aerei.

Terisio Pignatti, Vittore Carpaccio, in ‘Enciclopedia universale dell’arte”, 1958

II soggetto favolosamente esotico, il ritmo lento e sognante, hanno donato al Carpaccio degli Schiavoni fama di narratore magico, di evocatore di miti, ma il carattere di quelle pitture sta invece nella straordinaria evidenza cromatica della rappresentazione. La dorata atmosfera dello Studio, o il rosso lacca d’un sigillo che pende dall’aria, la fuga di turchini vividi delle tonache dei frati contro il verde-oro del cortile del convento, una veste viola d’un vecchio frate, sono tutti episodi figurativi, immagini d’una poetica ormai affatto indipendente dal “soggetto”. Dalle luci “reali”, dalle indimenticabili aperture di cieli e di acque degli Ambasciatori di Sant’Orsola, si giunge qui al supremo limite di forme che vivono per sé sole, nella loro integrità coloristica.

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